Nella primavera del 1978, un giovane benedettino plurilaureato, mosso da un caparbio desiderio di silenzio, risaliva la Val Maira portando con sé 2000 libri. Destinazione Marmora, borgata della parrocchiale: una manciata di case aggrappate al versante a solatìo, già allora troppo numerose per i pochi inquilini rimasti. Il luogo ideale per fare esperienza della solitudine tacendo, lavorando e pregando secondo la regola di San Benedetto. Circa trentatré anni e 55.800 volumi più tardi, è il volto grinzoso e sereno di un monaco anziano ad accogliere chiunque bussi alla porta del monastero.

Un eremita ce lo si immagina come minimo da solo e verosimilmente  di cattivo umore: cosa avrà mai da essere contento uno che sta sempre per conto suo? Invece padre Sergio sorride affabile a chi entra e gli offre “un caffè dell’amicizia”: «che arrivino ospiti o che non passi nessuno», spiega accendendosi l’ennesima sigaretta, «ne bevo anche dieci al giorno». Dopo trent’anni di romitaggio, padre Sergio vive però da quasi tre anni in compagnia del badante Daniele, che lo accudisce e lo assiste nelle faccende domestiche: l’età e i problemi di salute lo richiedono. È quindi con Daniele e con il cane Lupo che adesso divide il freddo della canonica, scaldata soltanto dal potager della cucina, l’isolamento ovattato dell’inverno e il lavoro di bibliotecario. Sergio De Piccoli è nato il 7 gennaio 1931, vicino a Pavia da madre mondina e casalinga e da padre tipografo e rilegatore. Da lui ha imparato fin da bambino l’amore per i libri: oggetti da leggere e conservare, da scucire e da aggiustare, da collezionare e da catalogare con minuziosa precisione. Dei libri padre Sergio ama tanto il contenuto quanto la bellezza in sé: la forma, la consistenza, la possibilità di comporli in collane, di disporli meticolosamente per colore e dimensione. Altrimenti non avrebbe scelto, fra tutte quelle possibili, la catalogazione meno funzionale, ma più gratificante per lo sguardo: l’ordine per casa editrice.
Ogni giorno padre Sergio si alza e dice messa, il più delle volte all’altare di una chiesa vuota. Non guarda la televisione, non legge il giornale (salvo che qualcuno non gli porti un quotidiano) e mangia quello che Daniele e la Provvidenza riescono a racimolare senza dover far la spesa. Per tutto il resto della giornata ora et labora, come vuole la Regola: spacchetta i nuovi arrivi, li cataloga sul programma informatico d’archiviazione e infine li dispone accanto agli altri. Ma, si sa, in una biblioteca non c’è scaffale che rimanga vuoto a lungo. Come la Natura, le biblioteche aborriscono il vuoto. Così, otto per mille dopo otto per mille, di acquisto in acquisto, una donazione dopo l’altra, negli anni padre Sergio ha costruito un piccolo labirinto di cinque stanze foderate di enciclopedie, saggi, manuali, romanzi, guide turistiche. Ma già da tempo i libri faticano a trovare una collocazione tra il pavimento e il soffitto nelle stanze della canonica. Per questo Sergio aveva deciso di accordarsi con il Comune di Marmora, che era impegnato a realizzare i locali nuovi della biblioteca nell’ottica di una futura gestione. Tuttavia, dopo quattro anni di vana attesa, padre Sergio ha deciso di cercare altrove un patrocinio al progetto di dare spazio e respiro alla biblioteca nel frattempo ormai stipata di volumi. Forse sarà qualche fondazione privata a mettere i fondi per l’ampliamento, forse sarà lo stesso Daniele un domani a occuparsi della biblioteca. Più probabilmente ogni cosa tornerà in seno all’Ordine e alla Chiesa. Delle discussioni circa il futuro della biblioteca, padre Sergio sembra interessarsi fino a un certo punto: d’altronde non si può pretendere da un uomo che ha fatto voto di povertà scegliendo di non possedere nulla che si appassioni a questioni di eredità. Oppure chissà, dal profondo dei suoi vispi occhi azzurri, padre Sergio sa già come andrà a finire.

Senz’altro grazie agli articoli comparsi negli ultimi anni, padre Sergio e la “sua” biblioteca sono diventati delle celebrità, al punto che in estate, tra amici, visitatori abituali, curiosi e villeggianti, il monastero (secondo l’etimo, «il luogo di chi sta solo») vede transitare fino a quaranta persone al giorno. Un appello apparso ultimamente sulla stampa locale ha raccolto molte adesioni di volontari disposti a dedicare un po’ del proprio tempo alla biblioteca. Ma, soprattutto in inverno, quando la biblioteca è al freddo e i polpastrelli di chi cataloga rischiano di rimanere saldati ai tasti gelidi del vecchio computer, è più utile contribuire alla causa con un’offerta che affollare la già ormai compromessa quiete monastica di padre Sergio.
Lascio il monastero nell’abbraccio di un tramonto d’ottobre: l’ultimo sole scivola dietro al campanile della chiesa dedicata ai santi Massimo e Giorgio. L’imbrunire smorza in un pugno di minuti il calore dell’aria e della terra – nel cielo terso vibra sottile un presagio di neve: è il momento che gli scrittori tedeschi chiamano Dämmerung – l’ora incerta, tempo di passaggi e trasformazioni. Non posso fare a meno di pensare che presto questo sarà anche il tempo della biblioteca di Marmora, quando il suo creatore non ci sarà più. «Daniele non verrà al mio funerale, quel giorno. Resterà fuori a far suonare a festa le campane». Il giorno che le sei campane di bronzo volute e comprate da padre Sergio («perché io amo la musica») riempiranno la valle di rintocchi gioiosi, la biblioteca rimarrà orfana. Che sia gestita da un privato, dal Comune o dai Benedettini, la speranza è che rimanga aperta e accessibile a tutti, che la canonica non perda la sua funzione di luogo d’accoglienza, raccoglimento, sapere. Che non diventi infine come la biblioteca di Babele descritta da Borges: «Illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta». Ogni biblioteca è, per necessità, una creazione incompleta, un lavoro in corso, e ogni scaffale vuoto preannuncia i libri che verranno. Ma non basta raccoglierli e catalogarli, i volumi. Se è chiusa, una biblioteca diventa un deposito. Invece, come sostiene il Barone Rampante di Calvino, i libri sono un po’ come degli uccelli che non vanno tenuti fermi o ingabbiati, se no intristiscono. Una biblioteca è dunque un nido di libri e gli scaffali nient’altro che trespoli provvisori per pagine pronte al decollo. Sul dorso di ogni testo andrebbe impressa la stessa posologia di creme e unguenti – «per uso esterno» – perché sia chiaro che i libri sono fatti per viaggiare di mano in mano: un libro posato in un angolo e dimenticato è un parallelepipedo di cellulosa e inchiostro lasciato ad invecchiare. Ce ne sono 57.000 in bilico sulla montagna di Marmora, tra l’opportunità di essere letti e goduti e il rischio di venire dimenticati.
Irene Borgna