Una notizia apparsa su “Internazionale”, letta di corsa con scarsa attenzione, parlava di una riduzione del patrimonio ovino della Nuova Zelanda da 70 milioni di capi (11 per abitante) agli attuali 30 milioni (6 per abitante). La Nuova Zelanda domina il mercato mondiale degli agnelli ed è tra i maggiori esportatori di lana e di latticini: e allora cosa mai è successo in quel paese per spiegare un tale crollo del gregge ovino nazionale?
Allora quella piccola notizia a margine di un reportage più ampio suscita qualche dubbio: se colleghiamo questo crollo a segnali che arrivano dall’Europa e dall’Italia in particolare, quegli interrogativi si trasformano in un vago senso di inquietudine, e più si approfondisce l’argomento, più l’inquietudine diventa preoccupazione.

L’Italia conta 7.300.000 capi, molti ma non moltissimi rispetto ai 35.000.000 dell’Inghilterra o ai quasi 12 della Spagna. Il 50 per cento di questi esemplari si trova in Sardegna. E si scopre che anche da noi la riduzione è netta: in Sardegna, ad esempio, rispetto a dieci anni or sono si sono persi un milione di capi. E in tutta Europa si registra un arretramento. Una delle cause è rappresentata certamente dalla cosiddetta “lingua blu”, una virosi che colpisce in particolare i ruminanti di piccola taglia e che ha comportato molti abbattimenti. Ma non può essere solo la malattia a ridurre in modo così drastico il gregge nazionale. E non possono essere neppure i tanto temuti e colpevolizzati lupi, del tutto assenti in Sardegna.

E allora quell’inquietudine vaga ed emotiva deve tradursi in un ragionamento. E il ragionamento ci porta ad alcune possibili cause del fenomeno, che alla fin fine riconducono all’impossibilità di un reddito adeguato per gli allevatori e i pastori. La lana, se non è di razze particolarmente pregiate, non la vuole più nessuno, è considerata un rifiuto speciale, e dunque un costo per lo smaltimento. Il latte ovino, per quelli che ancora mungono pecore (e sono sempre meno) è ceduto alla stalla a un prezzo medio inferiore all’euro: pensate un attimo al tempo che occorre per mungere 100, 200 pecore raccogliendo meno di un litro di latte a capo e alla fatica, e vi renderete conto che un euro, anzi meno di un euro al litro, è vergognosamente basso. E comunque va detto – ed è la terza ragione delle difficoltà del comparto – che i consumi di pecorini stagionati sono in costante calo. Le giovani generazioni non amano quei sentori forti, un poco piccanti e l’odore animale che sempre si sprigiona da un cacio pecorino stagionato. E l’unico modo per garantire un buon prezzo del latte alla stalla sarebbe appunto quello di produrre formaggi affinati e non formaggi freschi che vanno a posizionarsi su di un mercato dominato dall’industria casearia. Certo, qualche nicchia resiste, i nostri Presidi reggono ancora, ma le grandi produzioni delle cooperative sarde ad esempio, sono in difficoltà grave. I giovani mangiano formaggi dolci, tendenzialmente insapori, morbidi e grassi.
Pecorini addio, dunque? E di conseguenza pecore addio? Non siamo ancora a quel punto, ma è certo che dobbiamo cominciare a riflettere seriamente tutti sul problema, istituzioni, produttori e consumatori, e valutare opportune contromisure: altrimenti il rischio di vedere piano piano estinguersi il pastoralismo e l’allevamento ovino è reale e neppure così lontano nel tempo.
Piero Sardo, tratto da http://cheese.slowfood.com/it/pecore-addio/