I territori terrazzati che ritroviamo in area montana sono oggi interessati da una rilettura da parte delle comunità locali al fine di costruire percorsi innovativi di sviluppo. Dalle progettualità pionieristiche di salvaguardia e ripristino dei terrazzamenti ad iniziative più recenti di valorizzazione anche turistica di questi territori verticali, passando per le inedite scuole di costruzione dei muretti a secco spesso portate avanti da associazioni e volontari, stiamo assistendo ormai da qualche anno ad azioni che contribuiscono a ri-elaborare conoscenze, saperi, saper-fare e architetture che mettono in valore le potenzialità materiali e immateriali dei luoghi, supportando da un lato un senso di comunità e dall’altro l’economia locale.
La complessità dei significati e dei valori dei paesaggi terrazzati può essere facilmente compresa se si considera la definizione riportata nella dichiarazione di Honghe per cui i terrazzamenti sono definiti sistemi agricoli ed ecologici da salvaguardare per la loro diversità culturale. Di questi si evidenzia quindi non solo l’aspetto di soddisfacimento di bisogni materiali dell’uomo, ma anche il loro essere deposito di conoscenze immateriali.
Come antropologi che si occupano di montagna siamo da anni chiamati a confrontarci sia con i processi di patrimonializzazione che con quelli di sviluppo locale, analizzando come questi, spesso, si intreccino e si influenzino vicendevolmente.
L’estensione del concetto di patrimonio nel secolo scorso, in particolar modo a partire dal dopoguerra, ha portato a riconoscere come “bene” tutto ciò a cui le società attribuiscono rilevanza in virtù del suo valore simbolico e in quanto parte di una memoria collettiva. Proprio su tale scia, in Italia così come in altre parti d’Europa e del mondo, si è assistito ad iniziative comunitarie di riscoperta, recupero e riattivazione di elementi che sono stati ricondotti a una tradizione locale. L’insieme di tali elementi, nel gergo prima accademico e poi istituzionale, ha preso il nome di patrimonio demoetnoantropologico. I beni culturali demoetnoantropologici (DEA) possono essere considerati un sottoinsieme di quel sistema composito che chiamiamo “cultura”. Svincolato da una mera virtù artistica, il loro valore risiede nell’essere esplicativi della cultura del gruppo sociale che li ha creati e che li ha tramandati. Come si deduce, il concetto di patrimonio tende a inglobare anche le produzioni “dal basso”: i saperi e i saper-fare delle comunità sono riconosciuti quali beni culturali nell’accezione di “testimonianze aventi valore di civiltà” da preservare e valorizzare e con essi anche gli elementi del paesaggio diventano documenti/monumenti di una civiltà, per riprendere un’espressione dello storico Jacques Le Goff. In questa scia si pone anche la Convenzione sulla Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Unesco approvata nel 2003. Ciò che rileva la Convenzione, in particolare, non è la singola manifestazione culturale in sé, ma il sapere e la conoscenza che vengono trasmessi di generazione in generazione e ricreati dai gruppi umani nell’interazione con l’ambiente e la propria storia.

Non stupisce quindi che l’arte della costruzione dei muretti a secco sia entrata nella lista dei patrimoni immateriali dell’umanità nel 2018, con una candidatura transnazionale appoggiata da otto stati, tra i quali l’Italia. L’Unesco ha evidenziato che “le conoscenze pratiche dell’arte dei muretti a secco vengono conservate e tramandate nelle comunità rurali, in cui hanno radici profonde, e tra i professionisti del settore edile […] testimoniano i metodi usati, dalla preistoria ai nostri giorni, per organizzare la vita e gli spazi lavorativi ottimizzando le risorse locali umane e naturali […] e allo stesso tempo rivestono un ruolo vitale per prevenire le frane, le inondazioni e le valanghe, ma anche per combattere l’erosione del suolo e la desertificazione”.
L’importanza dei terrazzamenti è d’altronde riconosciuta a livello mondiale dall’alleanza mondiale per i paesaggi terrazzati, il cui terzo incontro, intitolato “Terraced Landscapes. Choosing the future”, si è svolto in Italia nel 2016 coinvolgendo, tra gli altri, anche i territori piemontesi dell’alto Canavese e i confinanti comuni valdostani. Dai lavori di questo incontro è emerso che “prendersi cura dei paesaggi terrazzati significa riconoscere il fatto che essi possono rispondere in modo concreto a richieste contemporanee e diverse, come la conservazione del valore storico e culturale, l’esplicazione di funzioni ambientali e idrogeologiche, il miglioramento della qualità della vita attraverso produzioni agroalimentari di qualità, il senso di appartenenza, lo sviluppo sostenibile”.
Senza poter in questa sede citare tutti i documenti di cui i terrazzamenti sono oggetto, si ricorda ancora che questi rientrano in diversi piani strategici di aree più o meno vaste, nei PSL dell’ultima programmazione (2014-2020) di diversi Gruppi di azione Locale e, non ultimo, sono contemplati dal “Registro nazionale dei paesaggi rurali storici e delle pratiche agricole e conoscenze tradizionali”.

Dopo anni di oblio, i terrazzamenti sono oggigiorno riconosciuti quali realtà specifiche dei territori verticali, con ricadute sociali, culturali ed economiche importanti capaci di incidere sulla qualità di vita delle comunità locali e sulla loro resilienza. Le diverse esperienze nelle Alpi e negli Appennini ci spingono ad andare oltre l’immagine ingannevole che lega in maniera univoca una comunità al patrimonio stesso, e che comporta una visione destoricizzata e priva di processo che invece caratterizza proprio i prodotti culturali e la cultura in generale. Su tale immagine, inoltre, è subentrato un paradigma patrimoniale che ha caratterizzato lo sviluppo locale e che, a sua volta, ha fatto un uso rigido e monolitico dei termini “tradizione”, “identità” e “autentico” nei diversi programmi e azioni. Si tratta di termini che risuonano ancora oggi in un periodo di forte transizione e in vista di importanti strumenti economici pensati per affrontare le sfide poste dalla pandemia Covid-19.
Eppure è proprio il dinamismo e la coralità degli interventi che ritroviamo a livello locale sui terrazzamenti un po’ in tutte le aree montane d’Italia – di cui al centro vi sono attori diversi, di provenienza diversa, che si riconoscono “comunità” – che ne fanno un ottimo laboratorio per decostruire quelle risposte culturali quali la folklorizzazione derivate in passato da spopolamento e marginalità̀ delle aree alpine e, in particolar modo, per ripensare il binomio patrimonializzazione-sviluppo locale. Solo rimandando alla complessità sottesa alle trasformazioni storiche e socio- culturali che comporta ibridazioni, nomadismi e formazioni di località e di relazioni di affezione e d’identificazione con i luoghi e gli spazi di vita, ciò che è riconosciuto patrimonio da una comunità potrà divenire elemento capace di far ripensare il presente per incisive azioni per il futuro.
Maria Anna Bertolino