Il Mediterraneo come mosaico di tutti i colori (Braudel, 1985)

La pastorizia non è solamente transumanze di greggi e mandrie, bestie e zoccoli, carovane e camper; è anche il movimento di genti, di gruppi, di comunità, che generazione dopo generazione reinterpretano percorsi e pratiche antiche e annuali, animando e popolando territori limite. In particolare nel Mediterraneo, regione in cui la pastorizia è insieme storia e geografia (si pensi ai simboli ed ai riti delle varie culture mediterranee) il perpetuarsi e l’evolvere di questa attività implica lo spostamento, la migrazione anche di comunità, di pastori che passano da una sponda all’altra della regione, alla ricerca di pascoli più verdi, e di condizioni e di salari più interessanti come analizzato dal progetto Transumanze mediterranee.
La ristrutturazione recente della pastorizia nella regione mediterranea rispecchia abbastanza fedelmente le dinamiche che hanno cambiato, rimodellandole, le società sulle diverse sponde del mare che le accomuna, seppur con ritmi distinti. A fronte di fenomeni comuni di integrazione commerciale, globalizzazione culturale e cambiamenti del clima e della demografia della regione, il mondo rurale ha subito importanti cambiamenti che hanno spesso provocato uno spopolamento delle campagne ed un impoveriremo del tessuto socio-economico rurale. La storia, anche recente, insegna che i fenomeni migratori sono spesso intervenuti per bilanciare queste dinamiche, e che le campagne sono spesso state aree sia di emigrazione che anche di immigrazione – a dispetto della percezione radicata di un mondo rurale come statico, immobile, tradizionalmente chiuso (Osti G. e Ventura F., a cura di, Vivere da stranieri in aree fragili, Liguori, Napoli 2012).
Le aree montane rappresentano un caso specifico, forse più intenso, di questo processo, ed oggi la maggior parte dei lavoratori nel settore della pastorizia ed in quello forestale sono di origine straniera, non solo in Italia ma nei vari paesi dell’Europa mediterranea. Nel caso della pastorizia il fenomeno è evidente – negli Abruzzi si parla del 90% dei pastori, per le regioni del nord Italia invece il numero si approssima al 70% (dati indicativi, non esistono censimenti dedicati). I dati per molte regioni di Spagna e Grecia sono congrui con quelli italiani, mentre per le regioni mediterranee della Francia il fenomeno riguarda soprattutto migrazioni interne, cioè cittadini dalle regioni del centro e del nord che, coadiuvati anche da una rete di scuole di formazione ed istituzioni di sostegno, “scendono” a fare i pastori nelle regioni mediterranee.

Questo fenomeno è sicuramente anche il risultato delle recenti ristrutturazioni della pastorizia euro-mediterranea, soggetta a politiche settoriali atte a promuovere l’intensificazione del sistema produttivo e costretta a competere con prodotti di sistemi intensivi o con quelli importati da paesi con potenziale zootecnico distinto (come Regno Unito e Nuova Zelanda). In questa morsa l’Europa meridionale ha perso in due decenni quasi il 30% degli allevamenti, mentre quelli rimasti hanno espanso il proprio gregge e attuato strategie di abbassamento dei costi di produzione. Questa ristrutturazione del settore ha modificato in profondità la dimensione delle aziende e la natura del lavoro, segmentando e marcando la divisione tra il lavoro gestionale e quello pratico, di campo.
Questa ristrutturazione ha creato condizioni poco attraenti per le nuove generazioni, che, a fronte dell’aumento delle mansioni e delle responsabilità dei pastori, hanno visto calare i margini di guadagno, con il prezzo del latte e della carne ovo-caprini invariati mentre sono cresciuti i costi di produzione. Si assiste così da anni a una problematica forte relativa al ricambio generazionale e della mano d’opera sui pascoli. La crescente presenza di lavoro salariato indica la perdita della dimensione aziendale familiare, ed il fatto che una grandissima parte di questi salariati siano stranieri immigrati indica che alle condizioni e con i salari attuali rimane difficile reperire forza lavoro locale.
D’altronde il contributo di comunità straniere al ricambio generazionale non è una novità per la pastorizia nel Mediterraneo. Come già fu nei secoli recenti per le migrazioni di pastori dal Piemonte alla Provenza, dalla Sardegna al centro-Italia, dall’Andalusia ed Estremadura ai Pirenei, dalle valli bergamasche ai cantoni svizzeri. Simile, anche se peculiare, il discorso per i Valachi nel nord e gli Arvaniti nel centro della Grecia, e per i Kurdi in diverse aree della Turchia.
Le ricerche condotte nell’ambito del progetto la Routo (www.larouto.eu) hanno evidenziato la fitta rete di scambi, sia in termini economici che culturali, fra le vallate alpine del Piemonte – e in particolare le valli Grana, Stura di Demonte e Maira – e la pianura della Crau, nella Provenza francese. Fra i due poli di questa rete migratoria si innesca fin da fine Ottocento una sorta di equilibrio fra la domanda di manodopera da impiegare nel settore pastorale e l’offerta di molti giovani montanari, in cerca di occupazione: i proprietari dei grandi greggi transumanti della Crau affidano la conduzione dei propri animali ai pastori Piemontesi, considerati lavoratori instancabili, e molto stimati per le loro competenze e abilità professionali; questi ultimi lasciano le loro case e i loro villaggi per svolgere altrove un mestiere familiare e conosciuto. Spesso, infatti, si tratta di famiglie molto numerose in cui alle proporzioni ridotte delle terre e al numero esiguo di animali allevati, corrispondono troppe braccia inattive e bocche da sfamare. Proprio il declino dell’economia agro-pastorale nelle vallate piemontesi sarà uno dei principali fattori che daranno vita a tutta una serie di migrazioni, a cavallo fra XIX e XX secolo – dirette soprattutto verso la Francia, ma anche verso l’Argentina e l’America settentrionale – che contribuirono via via al lento e progressivo spopolamento delle terre alte.
Come recentemente emerso dal lavoro di ricerca “Gens de l’Ubaye, Gens du Piémont” (Progetto di ricerca promosso dalla municipalità di Barcelonnette, Alpes-de-Haute-Provence, dal Musée de la Vallée e dall’associazione Connaissance de la Vallé di Barcelonnette), la valle dell’Ubaye, nelle Alpes-de-Haute-Provence, ha rappresentato la meta di moltissimi piemontesi partiti in cerca di fortuna. Questi hanno approfittato a lungo del carattere permeabile della frontiera franco-italiana, e soprattutto delle similitudini tra i due territori, geograficamente e culturalmente vicini. A partire dalla metà del XIX secolo i censimenti di popolazione dei comuni della valle dell’Ubaye mostrano un numero crescente di cognomi di origine piemontese e italiana. Per alcuni di questi comuni la percentuale della popolazione straniera arriva in alcuni momenti a toccare delle soglie decisamente importanti: si pensi che nel 1906, nel solo comune di Saint-Paul sur Ubaye – più del 25 % della popolazione totale recensita era straniera.
I piemontesi che arrivano in Ubaye trovano lavoro soprattutto nel settore agricolo: l’economia della valle, infatti, si basa principalmente sulla coltivazione delle terre e sull’allevamento ovino.
Il picco degli arrivi dei piemontesi in Ubaye viene registrato proprio a partire dal 1880, nel momento in cui si intensificarono le partenze degli abitanti dell’Ubaye verso il Messico – è questa la storia dei Barcelonnettes, i numerosi giovani che partiti dalla valle fecero fortuna investendo nel nascente settore tessile messicano (Vedasi il lavoro di Hélène Homps, Les Barcelonnettes au Mexique). L’emigrazione dei francesi verso il Messico creò un’ampia disponibilità di terre e cascine da affittare: è in questo momento che l’emigrazione dei piemontesi si trasforma passando da temporanea a permanente. I piemontesi arrivano con la loro famiglia al seguito, affittano le case abbandonate dai francesi – nei valloni più marginali e isolati – e coltivano le terre, allevano animali, danno nuovo vigore all’economia agricola della valle, preservando le terre da un abbandono che sarebbe stato altrimenti drammatico.
La vicenda dei piemontesi in Ubaye ricorda, per moltissimi aspetti, quella dei Sardi in Centro Italia a metá Novecento (vedasi i lavori di Benedetto Meloni al riguardo) e quello piú recente delle comunità straniere che arrivano oggi in Italia, come ad esempio i Rumeni venuti a lavorare in Piemonte o nel Triveneto come pastori d’alpeggio, o al seguito delle greggi transumanti della pianura del Po (Nori M., de Marchi V., Pastorizia, biodiversità e la sfida dell’immigrazione: il caso del Triveneto, Culture della Sostenibilità, 2015).
Più in generale nei paesi euro-mediterranei il profilo tipico dell’immigrato che lavora oggi come pastore salariato è quello di uomo, tra i 25 ed i 40 anni, originario di un paese della regione mediterranea, spesso con esperienza diretta nell’allevamento (non necessariamente con modalità pastorali). In molti casi può trattarsi di immigrati di religione cristiano-ortodossa (rumeni, bulgari) o musulmani (marocchini, albanesi, macedoni). Il loro contributo si caratterizza nel permettere l’evoluzione e la diversificazione delle aziende, che possono profittare di manodopera relativamente qualificata a costi bassi, permettendo il perdurare di numerosissime realtà agricole, spesso di dimensioni ridotte, che altrimenti sarebbero state costrette a scomparire.
Coinvolgere questi lavoratori e le loro comunità nei processi di cambiamento, di adattamento e di innovazione del settore, e fornirli degli strumenti adeguati, stabilizzandoli e responsabilizzandoli, offre l’opportunità di contribuire a costruire i pastori di domani, senza i quali il Mediterraneo rischia di perdere alcuni dei suoi guardiani più preziosi e sempre più rari.
Laura Fossati, antropologa, progetto “Gens de l’Ubaye, Gens du Piémont”
Michele Nori, socio-agronomo, progetto “Transumanze Mediterranee, Migration Policy Centre”