Il Parco nazionale Gran Paradiso, primo parco istituito in Italia, si avvia a spegnere cento candeline. Un secolo di vita. La gran parte dei parchi regionali piemontesi ha festeggiato i 40 anni.
Istituzioni quindi tutt’altro che novizie. Anche la legge quadro nazionale in materia (L 394/91), nonostante il ritardo con cui fu approvata, non è di primo pelo. Ciò nonostante i parchi naturali continuano ad essere istituzioni in buona misura ignote. Spesso avulse dai contesti territoriali. Oggetti in parte clandestini, spesso citati a sproposito.
Esagero? Affermazioni oggetto di disincanto? Solo in parte.
Basta osservare come i media si approcciano all’argomento. Prevale un racconto approssimativo, incompleto, spesso semi folkloristico. Parchi come paese dei balocchi, da festa dell’albero.
Sullo sfondo sta l’eterna e irrisolta contrapposizione tutela-sviluppo.
“Torino, giovedì 21 dicembre 2017, la sala grande del Circolo dei Lettori ospita un convegno organizzato da Uncem.
Smart & green community. Coesione, crescita inclusiva, sostenibilità per i territori”. Argomento di grande interesse, la sala è piena. Non può mancare l’intervento dell’Assessore regionale alla Montagna, Alberto Valmaggia, che nella legislatura in corso ricopre anche il ruolo di assessore ai parchi. Ma i parchi non ci sono. Restano fuori dal locale. Fuori da un argomento che sarebbe al contrario di loro pertinenza.
I parchi si occupano di sostenibilità per legge. Eppure al convegno non sono neppure citati. Ma basta uno sguardo alla mappa del Piemonte per verificare che parchi e riserve naturali interessano una percentuale notevole dell’area montana, percentuale che si amplia se si includono i siti della Rete Natura 2000 europea”.
Il citato convegno di Uncem è un esempio fra i tanti. Un segno tangibile della considerazione istituzionale di cui godono questi enti. Ma soprattutto della scarsa conoscenza del loro ruolo. Delle loro potenzialità.
Parchi naturali questi sconosciuti, dunque.
Parchi aperti, parchi chiusi
Di lì in poi è parco, non si può buttare la carta per terra, non si può schiamazzare, non bisogna disturbare gli animali. Una banalizzazione (apparente) di un concetto importante.
Parchi come barriera. Come limite. Riserve indiane.
“Raccogliete bei ricordi, non raccogliete fiori”, esortava Samivel nel suo manifesto dedicato al Parco nazionale Gran Paradiso. Giusto, sacrosanto, ma erano gli anni 60 del secolo scorso. Il guaio è che il parco è in molte realtà un confine rigido ancora oggi. Un confine che andrebbe invece reso permeabile: per esportare modelli culturali, ma anche e soprattutto un modello di governo del territorio. Innovativo, consono alle emergenze planetarie. La questione esiziale è sovvertire quello che ancora oggi è un modo radicato di pensare, un atteggiamento diffuso.
Emblematico è il caso dell’Alpe Devero, che insieme alla gemella Alpe Veglia forma l’omonimo parco naturale piemontese. Parco che ha tagliato il traguardo dei 40 anni, oltremodo noto e apprezzato per le sue qualità ambientali, come testimonia il costante flusso di camminatori, d’estate e d’inverno. Un luogo che non avrebbe bisogno d’altro che di proseguire il percorso intrapreso, ma che si trova invece coinvolto in un progetto di ben diversa filosofia come Avvicinare le Montagne (ampliamento degli impianti di Varzo-San Domenico).
Recente è il caso del Parco naturale della Lessinia, in Veneto, soggetto a rischio di riduzione dell’area per pressioni locali. Confortano però casi in cui, al contrario, il flusso è stato inverso. Casi come il Parco del Mont Avic che si è esteso nella conca di Dondena per unirsi al Gran Paradiso, ed è ora allo studio un ulteriore ampliamento.
Stesso processo interessa il Parco nazionale Val Grande. Insomma, confini instabili, in incerto divenire.
Ancora confini
Confini nazionali in questo caso. Molte aree protette alpine sono situate in prossimità del crinale principale. E spesso al di là del crinale si estende un’altra area protetta. La natura d’altronde i confini nazionali li ignora, di conseguenza, per gli enti di gestione è “naturale” pensare in modo sovranazionale. Europeo in questo caso. Immaginare parchi senza confini.
C’è una realtà piemontese dove si è andati oltre l’immaginazione. Dove non ci si è limitati a progetti comuni ma dove è comune anche il modello di gestione. Parco delle Alpi Marittime e Parc national du Mercantour. Centomila ettari di ambiente alpino tutelato. La persona giusta con cui parlarne non può che essere Patrizia Rossi, per 30 anni direttore del parco. Patrizia Rossi è stata anche presidente di Europars e quindi è ovvia la domanda: l’Europa dei parchi esiste?
«Certo che esiste! Al di là del fatto che ogni paese europeo può essere diverso dall’altro nelle sue politiche e nel suo sistema di aree naturali protette, il concetto di parco come zona di protezione con confini ben individuati è diffuso ovunque, corrisponde alla definizione dell’Iucn e rientra in una delle corrispondenti 6 categorie. “Un’area protetta è un ben definito spazio geografico, riconosciuto, dedicato e gestito, attraverso mezzi efficaci, legali o altro, per ottenere la conservazione a lungo termine della natura insieme coi servizi ecosistemici e i valori culturali” (Iucn Definition 2008).
Il concetto di parco è approdato in Europa agli inizi del ’900. Ovunque hanno dovuto confrontarsi con l’antropizzazione e con una natura più “addomesticata”, per cui si è passati da parchi dove la natura è indisturbata, ad aree sperimentali dedicate allo sviluppo sostenibile. Dagli ultimi decenni del secolo scorso l’organizzazione che ha assicurato coerenza e coordinamento a queste politiche ed è stata interlocutrice dei vari governi ed istituzioni è stata la Federazione dei parchi nazionali e naturali d’Europa, in breve Europarc. Creata nel 1973, rappresenta oggi centinaia di autorità responsabili e migliaia di aree protette in 41 paesi UE e non Ue.
“Nature knows no boundaries” (la natura non conosce confini) non è più un semplice slogan. Ne è esempio perfetto un vasto territorio nelle Alpi del Sud comprendente il Parc national du Mercantour in Francia e il Parco naturale delle Alpi Marittime in Italia.
Dalla riserva di caccia reale al parco europeo. Si tratta di storia: l’antica riserva di caccia di Vittorio Emanuele II già prima dell’unità di Italia si estendeva sui due lati delle Alpi. Per gestire congiuntamente le popolazioni di ungulati è nata negli anni ’80 l’operazione stambecco, seguita negli anni ’90 dalla reintroduzione del gipeto e, nel nuovo millennio, la ricolonizzazione spontanea del lupo. Col tempo la collaborazione si è fatta via via più intensa, coprendo ogni settore di attività. Si può citare l’iscrizione al Patrimonio Mondiale Unesco denominato “Le Alpi del Mediterraneo, dalle Alpi al mare”. Nel 2006 la Ue approva il Regolamento n.1082/2006 relativo a un gruppo europeo di cooperazione territoriale (Gect) che fornisce la possibilità giuridica di creare un soggetto pubblico unico di livello europeo, sovraordinato alle autorità dei due parchi, pur nel rispetto dei reciproci ordinamenti nazionali. Nasce il 23 maggio 2013 il Gect Parco europeo Marittime Mercantour, dotato di un presidente e un direttore, un consiglio direttivo misto e la possibilità di assumere personale . Lo stesso Gect ha l’incarico di gestire il dossier Unesco. Quindi più che mai l’Europa dei parchi esiste, eccome!».
Governance, governance
Un bel problema. I parchi naturali sono gestiti da enti autonomi nazionali o regionali. Enti governati da consigli nominati dalle “comunità del parco”. Ovvero dai rappresentanti dei comuni interessati dal territorio dell’area protetta sia pure su designazione delle associazioni interessate. Il presidente, figura fondamentale, è invece nominato dalle giunte regionali, oppure nel caso dei parchi nazionali dai membri del consiglio all’interno di una rosa di tre candidati scelti dal ministero dell’ambiente. Procedure alquanto farraginose, ma non è questo il nodo delicato, sollevato più volte dalle associazioni di tutela ambientale storiche. È di qualche giorno fa una loro lettera in merito. Promotore dell’iniziativa è Piero Belletti esponente di Pro Natura Torino che da tempo si occupa della questione. Ecco la sua opinione:
«In Italia non esistono mezze misure. Siamo passati da un’epoca, mi riferisco agli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, in cui la gestione dei parchi era definita in modo piuttosto autoritario, senza tenere in conto le esigenze e le richieste delle popolazioni locali, a un periodo, quello attuale, in cui invece le amministrazioni locali decidono di fatto in modo autonomo su quasi tutti gli aspetti che regolano la vita di un’area protetta. Mi spiego meglio: oggi i parchi, a livello nazionale ma soprattutto regionale, sono affidati nella quasi totalità alle amministrazioni locali che esprimono la maggior parte dei consiglieri. Tale norma si sta peraltro dimostrando inefficace nel rappresentare le associazioni ambientaliste storiche, ovvero quelle vere, la cui storia è direttamente correlata alla storia, alla nascita, dei parchi. Accade al contrario che siano nominati dalle comunità locali rappresentati di associazioni di tutela ambientale che sono tali solo di nome, però comprese nel lungo elenco del Ministero dell’Ambiente. Elenco che andrebbe rivisto e reso più coerente con le effettive necessità della tutela. A tal proposito si può segnalare quanto accaduto di recente all’Ente di gestione del Parco naturale delle Alpi Marittime dove il candidato espresso in modo congiunto da tutte le associazioni storiche, compreso il Cai, non è stato scelto. Per far sì che i parchi naturali possano svolgere appieno i loro compiti, anche di promozione innovativa del territorio, è fondamentale che il loro governo sia affidato a persone effettivamente competenti in materia ambientale, rispettando ad esempio quanto stabilito nella legge quadro in merito ai curricula. Infine mi chiedo per quale ragione la rappresentanza delle categorie economiche nei consigli direttivi degli enti di gestione sia esclusiva del mondo agricolo. Sono plurime le categorie coinvolte nell’azione delle aree protette. I gestori di rifugi ad esempio per restare nell’ambito “montagna”. Sono lontani i tempi in cui i parchi dipendevano dal Ministero dell’Agricoltura».
Vivere e lavorare in un parco
Ovvero gestire un’attività economica, in questo caso turistica, all’interno di un’area protetta. Un limite? Un’opportunità? Un valore aggiunto?
Massimo Manavella gestisce da molti anni il Rifugio Selleries, 2030 metri, in Val Chisone, nel Parco naturale Orsiera Rocciavré. Tra l’altro Massimo è stato anche per lungo tempo presidente di Agrap (Associazione gestori rifugi alpini e posti tappa del Piemonte). Una voce autorevole dunque. La sua scelta di protrarre l’apertura del rifugio per tutto l’anno fu impegnativa, ma la domanda riguarda altro: in un parco ci si sente come in una riserva indiana?
«Non esageriamo. Tuttavia devo dire che ci sono stati momenti e occasioni in cui mi avrebbe fatto piacere e, soprattutto, comodo, non dover passare dagli uffici del parco. E in alcuni frangenti ho anche deciso di rischiare la multa, pur di fare ciò di cui avevo necessità. In ogni caso non mi sento di affermare che i parchi creino eccessi normativi, semmai un problema pesante sono i tempi lunghi. In Italia la burocrazia è greve in ogni campo e per chi fa impresa questo costituisce un serio ostacolo. Ciò nonostante non sarei d’accordo a deroghe che non siano ben ponderate. A “bocce ferme” comunque ritengo che il ruolo dei parchi sia importante. Un parco determina potenzialmente la qualità ambientale, una risorsa sia per noi operatori turistici, sia per i cittadini che cercano un “territorio pulito e protetto”, spesso illudendosi anche un po’. Il dramma è vedere che, col passare degli anni l’istituzione “parco”, nel nostro caso il Parco Orsiera Rocciavrè, scricchioli e zoppichi. È debole come tutti i vecchi non più voluti e non più seguiti, che arrivano a sentirsi di troppo e fuori dalla propria epoca. Mi pare addirittura che ci sia un’intenzione silenziosa di lasciar morire il parco di morte naturale, mandandone in pensione, uno dopo l’altro, tutti i dipendenti senza sostituirli con personale giovane. La gestione dei parchi avrebbe necessità di rinnovamento per essere in sintonia con i tempi. Ma senza dimenticare, o peggio far finta di dimenticare, i principi alla base della loro creazione. Il lavoro di tutti noi operatori, non solamente turistici, dovrebbe sempre tener conto di ciò che lasceremo dopo di noi. E il “Parco”, per noi che abbiamo la “bonne chance” di esserne all’interno, può essere, certamente, d’aiuto».
Risorse, finanziamenti
“Un parco si deve autofinanziare”. Questione delicata, nodale. Elemento di accesa polemica qualche anno fa durante l’iter di modifica della legge quadro sulle aree protette. L’iter non si concluse, ma l’argomento è sul piatto. E pesa. Da un lato i fautori dell’autofinanziamento, con tutti i rischi connessi. Dall’altro gran parte delle associazioni di tutela ambientale e del mondo accademico che sostiene che la tutela degli habitat naturali e della biodiversità sia un servizio essenziale per la collettività, al pari della pubblica sicurezza. Nessuno chiede ai carabinieri di autofinanziarsi o tappare le buche nelle strade. In mezzo, fra le due istanze, si stendono praterie. Ed è in queste praterie che va cercato il futuro di queste istituzioni. È in queste praterie che va cercato il futuro del Pianeta Terra e del suo abitante più critico. I parchi naturali servono a trovare la strada.
Toni Farina