Un’unica distesa di ghiaccio e neve. È quanto si vedeva negli anni 80 arrivando a punta Indren, sul Monte Rosa. Ora tutto è cambiato, d’estate quando si sale su, pare di stare su Marte: di fronte a noi un’unica distesa di pietre arroventate dal sole e solo in lontananza rimasugli di ghiacciai. Ghiacciai sempre più piccoli, ingrigiti e crepacciati, diventati così pericolosi tanto che molte delle vie tradizionali non sono più percorribili anche da alpinisti esperti. Ghiacciai, emblema di una natura che sta cambiando ad una velocità impressionante, pressata com’è dal riscaldamento climatico. I numeri della deglaciazione sono spaventosi: più del 65% della superficie glaciale alpina osservata a metà Ottocento si è liquefatta e la gran parte è sparita negli ultimi decenni. Il risultato è un paesaggio che cambia a vista d’occhio, con i ghiacciai che scappano sempre più in alto inseguiti dalla vegetazione.
Com’è noto per ogni grado centigrado di aumento di temperatura corrisponde una migrazione degli ecosistemi in zone a quote più elevate di 125 metri e verso i poli per 125 Km. Modifiche come queste non sono prive di conseguenze negative, fino a determinare il rischio di estinzione di un grande numero di specie. Siano in presenza di trasloco forzato verso l’alto degli ecosistemi, una traslazione che genererà una miriade di problemi anche per il fatto che le notevoli distanze non sono percorribili dalle piante in tempi brevi, semplicemente perché troppo lente. La migrazione in quota inoltre comporterà una perdita della superficie disponibile nelle sommità delle montagne. Infatti le specie adattate alle condizioni più calde e provenienti dal basso guadagneranno terreno, a scapito delle specie alpine adattate a condizioni più fredde. La fusione di nevai e ghiacciai potrebbe ritardare questa perdita offrendo nuovi spazi da colonizzare. E’ molto probabile che il risultato complessivo comporti un inedito “rinverdimento” delle Alpi in alta quota. Utile a fornire una protezione aggiuntiva contro frane e valanghe, ma che modificherà considerevolmente i paesaggi e il possibile uso del suolo. Un ulteriore contributo a questo fenomeno potrebbe provenire dalla riduzione della pressione del pascolo e dall’abbandono della pastorizia in alcune aree. Non vanno poi dimenticati gli effetti delle ondate di calore che associate alla siccità, potranno determinare fenomeni di ingiallimento e senescenza anticipata nelle comunità subalpine e alpine. Insomma si stanno prefigurando nuovi scenari con paesaggi in continuo cambiamento poiché soggetti a una instabilità ad oggi del tutto imprevedibile. Un contesto naturale non facile dove la permanenza delle specie alpine e il mantenimento dei servizi ecosistemici dipenderanno moltissimo dalla nostra capacità di mettere in campo misure di conservazione, restauro e adattamento. La conservazione di ambienti naturali diversificati sarà la grande sfida che dovremo raccogliere negli anni a venire al fine di garantire una varietà di soluzioni e spazi di adattamento per le specie. Sarà fondamentale promuovere la diversità degli ambienti naturali preferendo soluzioni basate sulla natura, le cosiddette Nature Based Solutions. Ad esempio, come suggeriscono alcuni esperti, un’attività pastorale estensiva adattata nello spazio e nel tempo al cambiamento delle condizioni della neve e del clima estivo (siccità e ondate di calore in particolare) per preservare i servizi ecosistemici degli ambienti agropastorali attuali.
La situazione nel complesso richiederà una gestione adattativa molto attiva e sostenuta da un buon sistema di monitoraggio. A chi competerà tutto ciò? Chi si assumerà la responsabilità del governo di questi processi? Le aree protette, per la mission che sono destinate a svolgere, potrebbero rivestire un ruolo fondamentale nelle politiche di adattamento e nella governance per le aree montane. Non a caso la strategia sulla biodiversità europea inserita tra gli obiettivi fondamentali del Green Deal per il 2030 si propone di aumentare del 30% l’estensione delle aree naturali protette in Europa.
Insieme alle unioni montane e agli altri soggetti istituzionali, le aree protette sono chiamate a una grande e inedita avventura nella gestione della transizione verde dei territori montani. Esse dovranno diventare un laboratorio di sostenibilità a cielo aperto, dove un’attenta pianificazione nell’uso del territorio finalizzata alla funzionalità degli ecosistemi sappia contemperare nel medesimo tempo gli ecosistemi naturali con le colture tipiche che come il resto della vegetazione si stanno trasferendo in montagna. Paesaggi con vigneti sempre più in alto in Veneto come in Valle d’Aosta. Praterie alto atesine in quota sempre più appetibili per colture intensive di meleti e con conseguenti problemi di inquinamento. Queste sono solo alcune delle questioni sulle quali si dovranno sperimentare i territori. Senza contare la possibilità di una immigrazione interna alimentata da una nuova situazione socioeconomica, in cui le attività produttive verrebbero trasferite in aree più vivibili. Se così sarà, davvero tutto dovrà essere ripensato, compresa una inedita dimensione del paesaggio montano.
Vanda Bonardo