Annibale Salsa, “I paesaggi delle Alpi”, Donzelli Editore, 2019, 157 pp.
In questo agile volumetto l’autore, noto antropologo e storico delle Alpi, ci accompagna – come dice il sottotitolo – in “un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia”. Egli ci presenta il paesaggio alpino come un insieme di segni, significati e simboli che permettono di scoprire il volto e l’anima dei luoghi a chi sa vedere e capire ciò che la storia naturale e quella umana hanno lasciato impresso sul suolo. Perciò raccomando di leggere questo libro sia a chi delle Api sa poco, sia a chi crede di saperne già abbastanza, come chi scrive, ma che, leggendolo, ha dovuto ricredersi.
Una lettura attenta del paesaggio – in linea con la definizione che ne dà l’omonima Convezione europea – confuta l’idea di una “natura incontaminata” e ci mostra invece le Alpi come risultato di un lungo processo di addomesticamento, dettato da una cultura del limite incorporata nelle culture locali. E’ un punto di forza delle società alpine pre-moderne che i pur necessari vincoli normativi odierni non possono sostituire. Esso richiede di superare il moderno “dualismo oppositivo” tra natura e società (l’errore di Cartesio!), tra ecologismo ingenuo e quella che Salsa chiama “wilderness di ritorno”, arrivando a dire che oggi nelle Alpi “occorrerebbe celebrare la festa dei prati, non più quella degli alberi” (p. 25).
La storia delle Alpi viene quindi raccontata attraverso la millenaria costruzione del paesaggio alpino da Ötzi a Cesare Augusto, ai dissodatori medievali, agli “stati di passo” e poi agli stati nazionali che, portando i confini sugli spartiacque e limitando le autonomie locali, hanno condannato la montagna alpina a diventare periferia. Questa del paesaggio come “spazio di vita” è una storia complessa in cui i cambiamenti climatici (l’optmum medievale, la piccola “età glaciale”) s’intrecciano con le vicende politiche, le teorie scientifiche (i bacini idrografici di Buache), la storia delle istituzioni, delle autonomie, degli statuti e delle libertà individuali, dei vecchi e nuovi immaginari alpini.
L’originalità di questo approccio apre la strada a una serie di riflessioni critiche che riguardano il controverso concetto di identità, i non luoghi, lo spaesamento e il “disagio della civiltà”, i problemi e le opportunità che ereditiamo dal passato alpino e che oggi ci troviamo a gestire: la manutenzione e la cura contro la manomissione tecnologica e l’omologazione, le minacce del liberismo selvaggio e dello statalismo burocratico, il ricupero in chiave moderna delle tradizioni comunitarie per quanto riguarda l’autogoverno, i beni comuni, la gestione comunitaria delle proprietà collettive, i modi sostenibili di trasformare l’ambiente. Non ultima quella che – come dicono Gianluca Cepollaro e Alessandro de Bertolini nella bella prefazione – è “delle Alpi la vocazione più autentica, quella di terra di passaggio, quella di cerniera che unisce popolazioni differenti e non di barriera che le mortifica” (p. VIII).
Come possiamo ricompensare i paesaggi dei loro preziosi insegnamenti? La risposta di Salsa è semplice: dobbiamo continuare a “coltivarli”, mantenendo e rinnovando la tradizionale agricoltura mista di montagna, che fa da tramite tra l’ambiente naturale e gli spazi di vita umani: quella dei maggenghi, dei pascoli, della viticoltura e delle altre colture di qualità. Quella che contrasta l’inselvatichimento, che conserva la biodiversità, che previene i rischi idrogeologici, che favorisce il re-insediamento, che ha prodotto la cultura del limite e oggi la insegna alle metropoli. Quella infine che ha fatto da trama e da matrice agli insediamenti rurali, nelle loro varie forme, policentriche o sparse. Nell’ultimo capitolo troviamo pagine acute e stimolanti sull’architettura di montagna, sulla tensione che il turismo e la “colonizzazione dell’immaginario alpino” ha generato, tra presunte tipicità tradizionali e ricerca di nuove soluzioni costruttive. Particolarmente originale e autorevole (Salsa è stato anche presidente generale del Club Alpino Italiano) è il paragrafo sui rifugi alpini “tra aura sacrale ed esigenze di rinnovamento”(p. 145).
Infine va rimarcato che il racconto paesaggistico, mentre ci parla del passato, ci offre anche elementi indispensabili per immaginare scenari futuri. Essi sono compresi nella forbice che va dall’abbandono disastroso alla rigenerazione affidata a un riuso sostenibile, alla “tutela attiva” dei parchi e delle aree protette, a tutto ciò che può e deve “restituire centralità alle Alpi come spazio di vivibilità” (p. 78).
Giuseppe Dematteis