Durante tutta la fase della pandemia da Covid nei media si è parlato di scuola e didattica quasi tutti i giorni. Raramente, però, il dibattito ha riguardato contenuti e modalità innovative con cui adeguare le pratiche educative alle problematiche che il lockdown e la didattica a distanza stavano causando nei processi di apprendimento e nei vissuti emotivi degli studenti.
Uno di questi approcci è contraddistinto dalla Outdoor Education – letteralmente educazione all’aperto – e fortunatamente molte scuole o Amministrazioni le si sono già avvicinate nel tempo. Una prospettiva, sia chiaro, che non va delineata semplicisticamente come una soluzione ai problemi cognitivi causati dalla pandemia, e che anzi ha una sua lunga tradizione culturale e di sperimentazione pedagogica. Definita come metodologia didattica dagli anni ’40 e ripresa negli anni ’80 del Novecento, l’educazione nello spazio aperto è stata teorizzata e sostenuta nei secoli scorsi da intellettuali quali Jean-Jacques Rousseau, Johann Heinrich Pestalozzi, David Henry Thoreau, Èlisée Reclus, Rudolf Steiner, Maria Montessori e negli USA Lloyd Burgess Sharp. Il suo uso è sviluppato in modo discontinuo nel corso del Novecento fino ad un recente riscoperto interesse internazionale, tra cui troviamo in Italia un riferimento nei lavori di Roberto Farnè.

Ma cosa significa praticare educazione all’aperto – la cosiddetta Outdoor Education? Chiariamo un fatto: non è semplicemente spostarsi in giardino al sole – per non prendersi il Covid – continuando a fare le stesse cose che si svolgevano al chiuso. Non si tratta nemmeno di spostarsi all’aperto per fare ricreazione o gare di corsa: hanno la loro importanza, ma non parliamo di quello. Si tratta invece di usare lo spazio e l’ambiente che lo caratterizza come un libro aperto da scrivere, per praticare attività e sperimentazioni, meglio se interdisciplinari, utilizzando lo spazio fisico e le sue componenti materiali ed immateriali per costruire conoscenza in modo attivo, interattivo, creativo. Un fare legato all’esplorazione, alla manipolazione, alla comprensione, alla rappresentazione e alla riprogettazione degli spazi, – in base alle diverse fasce di età – legato direttamente allo sviluppo dell’intelligenza spaziale delineata da Gardner. Lo spazio con cui interagiamo costituisce una componente fondamentale della crescita cognitiva dell’individuo, al contempo collegabile all’apprendimento e all’interpretazione di tematiche di educazione ambientale legate all’ecosistema. Per questo includiamo all’interno di questo tipo di attività le pratiche connesse all’orientamento e all’interpretazione dei luoghi, in una combinazione di emotività e razionalità. Il campo delle neuroscienze conferma il fatto che l’esperienza in uno spazio aperto incida positivamente sul processo di crescita dell’individuo. Ed è collegando l’esperienza diretta dell’ambiente alla motivazione che si facilita il processo di apprendimento.

Si possono così ipotizzare attività sul campo legate all’orientamento (da quello prossemico per i più piccoli all’uso di strumenti di misura e mappatura), allo sviluppo di sensibilità e progettualità ecologiche, alla descrizione e all’interpretazione del paesaggio attraverso i sensi e l’osservazione diretta, fino alla simulazione di indagini sui luoghi e le loro funzioni. L’interpretazione dello spazio fisico passa attraverso tematiche interdisciplinari che collegano la geografia con la fisica, la chimica, le scienze della Terra e le scienze della vita, la matematica, le scienze umane come la letteratura e la storia e le scienze sociali. Ed è la combinazione delle diverse tematiche che porta a infinite possibilità.
La mappatura dello spazio attraverso l’uso dei sensi, o ad un racconto scritto o reinterpretato, può collegarsi ad attività di comprensione e interpretazione dello spazio alla luce di componenti didattiche altrimenti “imparate” sui libri. I concetti topologici sopra-sotto-lontano-vicino, alto-basso, alla base dell’orientamento spaziale, possono così essere appresi attraverso il corpo e non in astratto colorando fotocopie, come spesso accade.

Una caccia al tesoro che porti alla mappatura semplificata dei tipi di alberi di una specifica zona può diventare un’attività legata alla misurazione di quanta CO2 viene assorbita dagli alberi: è questo un esempio delle attività outdoor sperimentate all’interno dei laboratori di Geografia nel corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Torino, e proposte agli insegnanti nel corso “Fare scuola – Laboratorio sulla didattica outdoor” con il Comune di Collegno. Queste sperimentazioni si collegano direttamente alla place-based-education, che possiamo poi combinare ad altre metodologie come il problem-based-learning (partire dalla delineazione di un problema, definire le motivazioni): il suo obiettivo è sviluppare un processo di utilizzo dell’ambiente per insegnare concetti di tutte le materie, ma anche per ridurre il divario tra la vita degli studenti fuori dalla scuola e ciò che essi incontrano nelle aule.
Una ultima considerazione intorno ai luoghi: possiamo delineare una questione di scala. La scuola di un grande centro urbano può sperimentare molte attività nei suoi spazi circostanti, nel quartiere o in un parco pubblico, ma anche poi delineare queste attività in un percorso che porti in altri luoghi a scale diverse con specifiche uscite sul terreno che incontrino anche il tema della diversità culturale. Altre scuole possono essere favorite per prossimità geografica nello studio di ambienti rurali, oppure specifiche condizioni di adattamento umano all’ambiente di montagna, collina, pianura, costa.

Le diverse attività possono poi essere intrecciate fra loro in un percorso di interpretazione dei rapporti montagna (o altre aree interne) – città, che con Dislivelli in uno degli scorsi libri abbiamo definito “interscambio” https://www.dislivelli.eu/blog/scambi-ineguali-tra-territori-diversi.html. Ad esempio le relazioni con la biosfera e con l’idrosfera, o le componenti delle produzioni umane.
Una battuta finale, come sintesi di biopolitica attiva: si parla ora di “transizione ecologica”, con nuovi termini per meno nuovi concetti di sostenibilità. È pertanto chiaro che applicarla non significa parlare solo di ambiente, ma anche di economia e società. Ma ancor prima significa comprenderne i processi, peraltro portati già autonomamente fuori dalla scuola dai movimenti green e da Friday for Future. È forse il tempo di parlare di transizione didattica?
Alberto Di Gioia e Cristiano Giorda