La montagna è capace di accogliere più delle aree urbane, creando progetti dal basso tra i Comuni, con le associazioni locali, la rete del volontariato, la Caritas, le parrocchie. Le zone montane sono diverse dalle città nella capacità di creare opportunità di crescita, sviluppo, manutenzione e tutela del territorio, protezione ambientale, ma anche garanzia per la salvaguardia dei servizi pubblici locali, a partire dalle scuole. Lontani dall’invasione, con tassi diversi di presenza (più bassi), con integrazione migliore e più efficace.
Uncem ha lavorato nel 2015 per evidenziare progetti, iniziative, opportunità legate a immigrazione e coesione nei territori. Ha scelto, a livello regionale e nazionale, una via istituzionale, costruendo con le amministrazioni comunali nuove vie che possono fare scuola, individuando modelli e best practice, aiutando sindaci e presidenti di unioni a costruire progetti. L’assorbimento di stranieri, nei territori montani è inferiore del 2% rispetto ai territori metropolitani. I dati ci dicono che non siamo in presenza di nessuna invasione, ma anche che gli immigrati stanno rimpiazzando la manodopera autoctona che non svolge più determinati mestieri e integrando sia nelle filiere di produzione agroalimentari, sia per quanto riguarda le manutenzioni ambientali e la cura del territorio. Le Terre Alte con i Comuni si stanno organizzando in modo autonomo, lontano dai riflettori e dalla demagogia che invade i media su questi temi.
Uncem ha analizzato dati e percorsi, concentrandone una buona parte nel Rapporto Montagne Italia, presentato a giugno a Roma, alla Camera dei Deputati. Quasi un quinto degli stranieri in Italia – 889.602 persone su un totale di 5.014.437 – vive e lavora nelle aree montane. Ma se si incentivasse l’integrazione con “azioni concrete”, gli immigrati potrebbero aumentare e rivelarsi una “straordinaria risorsa”, come ha più volte ripetuto il presidente nazionale Enrico Borghi, deputato. Secondo i dati della Fondazione Montagne Italia, voluta da Uncem e Federbim, tra il 1951 e il 2001, 2.283 Comuni italiani hanno subito una perdita di potenziale insediativo. Di questi, 1.678 sono in montagna. Al 31 dicembre 2014 gli stranieri nelle aree montane rappresentano il 6,23% della popolazione, con punte del 9,94% in Emilia Romagna e percentuali più basse in Campania (3,32%). Si tratta di una quota ridotta rispetto alla media nazionale, pari all’8,25%. Se la percentuale di stranieri in montagna crescesse in linea con la media nazionale, ci sarebbero circa 280 mila persone in più da poter impiegare nella cura dei luoghi, nell’ospitalità e nei lavori agricoli. «La sfida dell’integrazione – ha spiegato Borghi in un convegno a Montecitorio il 14 ottobre – la vinciamo se i migranti possono contribuire allo sviluppo del paese. Se tutti gli stranieri rimanessero in città si verrebbero a creare delle banlieue mentre i territori rimasti abbandonati rischierebbero, tra le altre cose, anche conseguenze idrogeologiche».

Le proposte sono molteplici: ad esempio, utilizzare fondi e incentivi dell’Unione europea per inserire meglio e di più gli immigrati nelle filiere produttive, convertendo quello che oggi appare un problema in risorsa in quei territori dove la denatalità è accentuata e il ricambio demografico non c’è più, aprendo la strada alla cosiddetta desertificazione che può essere in tal modo evitata attivando nuove e moderne politiche di welfare attivo.
I Comuni devono essere aiutati anche su questo tema a fare rete. È quello che è avvenuto con l’ultimo bando Sprar per l’accoglienza: Unioni di Comuni, consorzi, associazioni hanno stretto dei “patti territoriali”, in montagna “di valle”, per individuare le migliori proposte relative ad accoglienza e integrazione. Che vanno di pari passo con formazione, innovazione e fantasia, tre aspetti non banali tenuti ben presente nel vademecum elaborato dall’assessorato regionale all’Immigrazione, diffuso a novembre tra i 1.200 Comuni piemontesi. Dove è comunque la comunità a fare la differenza. I “casi positivi” di coesione individuati dall’Uncem lo dimostrano. Ed è la comunità protagonista, nell’accogliere e nel rigenerarsi, anche nel riformare e ricostruire servizi di base. Gli stranieri non sono solo un valore per le realtà produttive, bensì la loro presenza, in diverse vallate, ha permesso di mantenere aperte delle scuole dove i numeri erano a rischio.
Per superare paure, incomprensioni, diffidenze, serve formazione. In primo luogo per la classe dirigente, per gli Amministratori. E fantasia, si diceva. Come quella che nelle Valli di Lanzo, le montagne più i vicine a Torino, ha portato alla nascita di una squadra di calcio composta da migranti africani e a un coro (neanche a dirsi, il “CoroMoro”) di giovani che cantano in piemontese in italiano, secondo la migliore tradizione.
Non è dunque un caso che i progetti migliori d’accoglienza nel territorio nazionale vengano dai piccoli Comuni di montagna, perché i numeri ridotti rendono la situazione più facilmente affrontabile rispetto alle realtà metropolitane dove i grandi numeri complicano le partite. Certamente qui evidenziamo il positivo, senza dimenticare però molte situazioni difficili, dove sono prevalse paure e si sono alzati steccati. Per evitarli, il processo di diluizione della presenza in montagna può essere sopperito in parte dalla presenza di immigrati che lavorano e richiedono servizi. Servono programmazione e strategie. I Comuni non devono agire da soli, ma le politiche sono da attuare a livello sovracomunale. I progetti virtuosi di integrazione oggi affidati alla buona volontà delle comunità, devono essere resi stabili, coordinati e supportati da precise scelte sulle quali le Regioni devono fare la loro parte, all’interno di una cornice unica nazionale.
Marco Bussone

Rapporto montagne Italia
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