“Orapronobis, certo che quest’anno il Vecchio lassù se la prende comoda, sacramento, non sarebbe male se cadesse un po’ di neve, dice il Paul e guarda il cielo […]”

“Cosa vuoi farci, una spolverata è ben scesa, prendiamo quel che viene, dice il Georg e si sistema il berretto […]”

“L’Onnipotente ha perso coraggio, dice il Paul, o forse dobbiamo chiedergliela in ginocchio ’sta neve, ormai è più rara della coca.”

Tratto da Ultima neve, Arno Camenisch (Keller editore, 2018)

Per cominciare questo mio pezzo sul futuro del turismo invernale e sciistico mi sono imposto di cercare uno spunto che sfuggisse al richiamo dell’attualità e della cronaca (difficile farlo al culmine di uno degli inverni più caldi e siccitosi degli ultimi due secoli) o al riferimento diretto a questo o quel rapporto che indica in modo chiaro e inequivocabile l’insostenibilità del modello dello sci di massa in una fase storica caratterizzata da scarsità di neve e innalzamento delle temperature.

Ho trovato conforto nella letteratura e in particolare nella penna di Arno Camenisch, che in “Ultima neve” mette in scena – il paesaggio di riferimento è quello delle Alpi svizzere – il travaglio di due fratelli alle prese con uno skilift, modesto lascito di famiglia, da far funzionare nel bel mezzo di una stagione invernale avversa, avara della materia prima (e unica) necessaria per non far girare a vuoto quelle strambe macchine di ferro che hanno il compito di portare senza fatica in quota gli sciatori, garantendo loro un’agile e divertente scivolata per tornare a valle.

L’attesa del Paul e del Georg – fatta di dialoghi, piccole azioni concrete, ricordi riemersi, fragili speranze – ha il valore potente di una metafora esistenziale, per una famiglia e per il mondo intero. Protagonista è il tempo, nelle sue varie forme.

Quella che a loro tocca vivere, naso all’insù, è la rappresentazione plastica di una transizione – che poi è la nostra stessa che qui proviamo a mettere a sistema – tra un passato che sentono scricchiolare sotto i piedi e un futuro che, essendo materialmente vincolato a quei piloni ben piantanti nel terreno, sembra non riuscire a rivolgere lo sguardo altrove.

Sono testimoni di un tempo sospeso, di quello strano spazio indeterminato e ambiguo – generativo solo se si desidera ardentemente che lo sia – tra il “non più” e il “non ancora”. Tutta la discussione sul futuro del turismo dello sci sta dentro la gestione di questo passaggio d’epoca che tiene insieme limiti ambientali ormai sovraesposti, destini e vocazioni di interi territori da rimodulare, timori e desideri di ampi pezzi di comunità di cui prendersi cura. Clima ed elementi naturali. Economie e lavori. Sentimenti e progetti di vita. Un dedalo di incertezze che può immobilizzare – inibendo ogni tipo di superamento dello status quo – oppure, al contrario, stimolare l’ingegno e la moltiplicazione delle energie.

È bene dirsi che il contesto dentro cui noi ci muoviamo non è per nulla agevole, anzi. Ed è di nuovo il tempo, in un’altra sua dimensione, a fare la differenza e ad affaticare il nostro passo. Michele Nardelli e Maurizio Dematteis nelle pagine introduttive al loro prezioso “Inverno liquido” spiegano bene come questione decisiva sia oggi la disarticolazione tra i tempi biologici – quelli che dovrebbero avere i ritmi distesi e non imminenti delle ere e non dei decenni – e i tempi storici, ossia quelli che stanno dentro il breve volgere di qualche generazione. I primi riguardano le condizioni globali del Pianeta (le temperature, la quantità di precipitazioni, lo spessore delle coltri ghiacciate la vivibilità di un dato territorio), i secondi il modo che ha il genere umano di stare nel Mondo.

Pascal Chabot in un bel volume dal titolo “Avere tempo” – appena pubblicato dall’Istituto Treccani – ci dice che la nostra civiltà, quella che negli ultimi due secoli con la spinta antropica ha sconvolto gli equilibri di tutti gli ecosistemi planetari, vive al fragile crocevia di quattro regimi temporali e con essi deve fare i conti per darsi un equilibrio, una prospettiva di vivibilità, una traiettoria di avvenire. Siamo tornati a fare i conti con Fato (il rapporto con la fine biologica di ognuno, la nostra morte) con la pandemia da Covid. Viviamo costretti in Ipertempo, esito dalla velocizzazione estrema imposta dalla digitalizzazione. Non riusciamo a scrollarci di dosso la falsa promessa di Progresso, ossia l’idea di una potenziale crescita infinita che è stata alla base di tutta la seconda parte del Novecento. Percepiamo – è sta qui la più grande novità – la minaccia di Scadenza, ossia il conto alla rovescia verso la catastrofe ecologica.

Scadenza, ecco la questione. Con ogni probabilità arrivati a questo punto il Paul e il Georg si rifugerebbero – seduti alla stazione di partenza del loro skilift – in un liberatorio orapronobis. Oppure sacramenterebbero per quel cielo piatto che non si decide a fare il suo mestiere.

Se dalla letteratura torniamo definitivamente alla realtà è immaginabile che a poco servirà rivolgere invocazioni all’Onnipotente – invocandolo o bestemmiandolo, che poi non sono cose così diverse… – perché inadempiente nella fornitura della manna fatta cadere (gratis) fin qui sulle nostre montagne e che non abbiamo saputo tener da conto quando sembrava risorsa abbondante, dovuta. Sarebbe bene inoltre essere consapevoli che potrebbe non essere una buona idea quella di sostituire un Dio in cui si è persa la fede con un altro, presunto più efficiente, cui affidare le chiavi del proprio destino. Chiara Valerio in un recente libro uscito per Einaudi (“La tecnologia è religione”, 2023) si chiede “che differenza c’è tra danzare per far piovere, e schiacciare un tasto per illuminare uno schermo o per chiacchierare con qualcuno distante chilometri?”. O, mutatis mutandis, visto che dalle nuvole non arrivano più i fiocchi, inventarsi dei marchingegni che ne programmino – o almeno ci illudiamo di poterlo fare davvero – la produzione al bisogno.

Non esistono bacchette magiche o scorciatoie. Scongiurare la fine del mondo, trovando la chiave per offrire un diverso Fine al Mondo è la cornice della sfida. La decisione di scegliere di insistere cocciutamente sulla direzione data o invece di scartare di lato, decidendo di impegnarci per l’alternativa, sta in capo nostro. Siamo esseri umani molto attaccati alle abitudini – anche, e forse soprattutto, a quelle cattive – ma possediamo una capacità unica, ossia quella di vedere in anticipo ciò che ancora non c’è e di potergli dare forma sfruttando le nostre abilità intellettuali, manuali e relazionali.

Oltre la neve ci sono la conversione ecologica (siamo parte della natura e non suoi proprietari), una revisione antropologica profonda (più consapevole dei limiti) e la riprogettazione delle economie collegate al turismo di massa. Se quest’operazione multilivello sembra più immediata lì dove le dimensioni del fenomeno hanno ancora caratteristiche di tipo artigianale – il caso del primo inverno di chiusura degli impianti della Panarotta è da questo punto di vista interessante -, più complessa sarà la transizione per quei contesti in cui la monocoltura dello sci e il suo sviluppo intensivo hanno di fatto monopolizzato e irrigidito la struttura produttiva e la fisionomia comunitaria, legandola a doppio filo ai successi o ai fallimenti dell’industria della neve.

Oltre la neve, come precondizione troppo spesso sottovalutata, ci devono essere necessarie alleanze tra diversi. Movimenti ambientalisti, imprenditori visionari, politici capaci di ascoltare e pianificare, comunità di nuovo cooperative.

Oltre la neve (o quel che ne rimane) c’è una rinnovata immaginazione collettiva.

Federico Zappini