In pochi decenni siamo stati in grado di stravolgere l’assetto socio-economico della montagna. Abbiamo aperto una voragine enorme, irrazionale, in gran parte violenta, tra noi e il passato della cultura montana. E allora, alla luce di questo, mi chiedo, per quanto riguarda i “nuovi sport di montagna”, argomento per il quale sono stato chiamato in causa da Dislivelli in quanto “esperto”: ha ancora senso parlarne? Ha ancora senso, prima ancora di entrare nello specifico, parlare di sport di montagna e turismo alpino?
Il turismo alpino è in realtà il frutto di una miopia originaria. E gli sport di montagna ne sono una conseguenza naturale. La miopia è nata dall’idea che il modello storico di villeggiatura in montagna, caro ai nobili e all’aristocrazia sette-ottocentesca, potesse divenire fenomeno di massa.
E allora si è cercato di pompare l’indotto del consumo montagna, attraverso la livellazione su standard medi sia dei prezzi che degli stili di fruizione. Facendo diventare alcune località montane delle fabbriche di relax preconfezionato.
Gli spazi alpini, con le loro popolazioni in equilibrio per secoli e secoli, sono stati improvvisamente travolti dai nuovi parametri circa il concetto di “ricchezza e povertà”. Avevano una vita che, secondo tali parametri, era “troppo dura”, fatta di adattamento all’ambiente e di ricerca di equilibri, che richiedeva “troppo” lavoro e sacrificio. E’ stata quindi promossa una cultura della rimozione del lavoro necessario (a parte quello salariato o finalizzato al reddito) e del sacrificio (la capacità di risparmiare e produrre solo quanto necessario) dei montanari. E questa logica si è successivamente applicata anche al turismo, allo sport in montagna: dove il tentativo di rimuovere la fatica è stato per anni il principio ispiratore.
Oggi il concetto di sport va ripensato. Che cosa significa fare sport nello spazio alpino? Quali sono le finalità? Vogliamo anche in questo caso limitarci a “consumare” emozioni dentro un contenitore piacevole, sovraccaricare gli aspetti auto-gratificanti e di mero divertimento? O cerchiamo esperienze dove lo sport possa diventare strumento e non fine in quanto tale?
Il punto non è “quali” siano gli sport innovativi in montagna, ma come questi vengano concepiti e fruiti. Come noi ci poniamo nei loro confronti e, di conseguenza, nei confronti dell’ambiente intorno: non dobbiamo percepirli come semplici veicoli di emozioni inebrianti, ma come strumenti di conoscenza-esperienza (della natura, del territorio, della sua cultura).

In questi termini, paradossalmente, anche lo sci alpino, in pista, nonostante gli alti costi economici e ambientali, può avere un senso se non lo concepiamo come un ricco luna park, ma come un percorso con cui portare le persone in contatto con luoghi e situazioni di uno spazio montagna non alterato. In questo caso gli impianti di risalita e le piste dovrebbero essere realizzati a misura di montagna e, finalmente, di uomo, anziché di “cliente consumatore”. Alimentati da energia rinnovabile, con il massimo risparmio energetico, cercando di ridimensionare l’impatto dei trasporti per arrivarci. E magari con scarsa battitura dei tracciati, superamento del concetto di “neve a tutti i costi” (vedi neve artificiale), con il recupero e la manutenzione delle vecchie infrastrutture di risalita. A scapito dell’apertura di nuovi comprensori. Superando la logica secondo la quale c’è sempre qualcosa di nuovo da “dover costruire” per poter “ripartire”.
Sono tempi di crisi, si dice. E anche in montagna l’industria turistica sta da tempo “tirando” decisamente meno. Ma siamo sicuri che si tratti di un segnale prettamente negativo? E che l’unica cura sia di nuovo prevalentemente economica o compensativa?
In realtà finché non si ha la forza di applicare (non solo pensare-predicare) una visione di sistema e integrazione, si resta sempre più impantanati.
Federico Acquarone