Una frase attribuita a Immanuel Kant recita: “Quanto monotona sarebbe la faccia della terra senza le montagne”. La frase, per chi non ama la montagna, può essere vera solamente dal punto di vista paesaggistico; per il resto è palesemente falsa. Nella annosa e mai risolta querelle se d’estate sia meglio il mare o la montagna, i sostenitori del mare prima o poi, inevitabilmente, diranno: “Ma che cosa c’è da fare in montagna? In montagna ci si annoia!”. E chi difende la montagna è quasi sempre disarmato di fronte a queste osservazioni; e le sue repliche non sono mai davvero efficaci. Le passeggiate, il contatto con la natura, il clima fresco, i silenzi, i ritmi lenti, l’assenza di sovraffollamento non sono buoni argomenti da spendere in lode della montagna presso chi già non la ama; per costoro l’unico argomento che li può avvicinare alla montagna deve passare per un qualche tipo di racconto che la renda familiare.
Questo, per alcuni aspetti, è anche un problema etico: è giusto semplificare la realtà per renderla più digeribile per stomaci abituati ad altri cibi, non necessariamente più rozzi, ma comunque diversi? Quando l’abbellimento diventa un camuffamento o addirittura una falsificazione? Tracciare una linea di demarcazione chiara non è semplice, ma la riflessione sul turismo ne è consapevole e ha saputo elaborare un concetto assai utile, quello di “autenticità rappresentata”: se un certo ballo tradizionale è troppo lungo per essere fruito dai turisti, che hanno tempo e livelli di attenzione limitati, allora tanto vale offrirgliene una versione abbreviata ed edulcorata, così qualcosa vedranno, e sarà qualcosa di abbastanza fedele all’autentico, perché in fondo è opera dell’ingegno della popolazione locale, anche se è trasfigurato, cioè modificato e messo in scena a uso e consumo degli spettatori-turisti, e soltanto perché ci sono i turisti.
Se l’obiettivo è che la montagna diventi luogo attraente anche per chi di suo non la cercherebbe, occorre fare un po’ la stessa cosa: rappresentarla e raccontarla meno per le sue dissonanze col già noto e apprezzato e più per le sue somiglianze, trovando così il modo di mostrare che la montagna non è un territorio per alieni, ma un luogo che può arricchire chiunque. In un’ottica, però, e qui deve situarsi lo sforzo di non falsificazione, che sia di “educazione alla montagna”, che la renda oggi meno spigolosa e che piano piano conduca le persone a scoprire domani le sue peculiarità, anche quelle per le quali oggi non sarebbero pronte.
Un ruolo importante nell’avvicinare le persone alla montagna può allora essere svolto dai festival; un fenomeno che ha riguardato in generale la cultura italiana almeno degli ultimi vent’anni e che è giunto a toccare anche, direttamente o indirettamente, la montagna. Senza pretesa di esaustività, possiamo ricordare i Suoni delle Dolomiti, il Milano Montagna Festival, il Trento Film Festival, Il richiamo della foresta in Val d’Ayas, Solstizio in Valle Maira, il Piccolo Festival dell’Antropologia di Montagna a Berceto: tutti tentativi di raccontare la montagna anche al di fuori della cerchia dei suoi aficionado, come luogo vivo e attraente.
In questo senso, occorre fuggire dal rischio di una raffigurazione pittoresca, totalmente sganciata dalla realtà materiale della montagna, che è fatta anche di problemi di spopolamento, specialmente nelle località fuori dai circuiti turisti più frequentati e perciò maggiormente a rischio di marginalizzazione. Si tratta di rischi ai quali localmente si cerca, con fatica, di porre rimedio, con progetti mirati (un esempio tra i molti: il progetto di Fondazione Cariplo AttivAree Oltrepò(Bio)diverso), ma anche con iniziative culturali di più ampio respiro, come ha fatto l’edizione 2019 del Festival del turismo responsabile IT.A.CA’ ponendo come tema dell’anno la “restanza” e così ricordando che la scelta di restare non può fare a meno di qualcuno che lo aiuti a farlo.
Corrado Del Bò, docente di Filosofia del diritto all’Università Statale di Milano