Bisogna innanzitutto distinguere tra “fusione” e “unione” di comuni: con la “fusione” due o più comuni scompaiono e ne nasce uno nuovo, corrispondente alla somma dei territori di quelli soppressi.
Per quanto riguarda la “fusione” le fonti normative sono costituite – a livello nazionale – dall’art. 15 del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (Decreto Legislativo 18 agosto 2000 n. 267) e, a livello locale piemontese, dalla legge regionale n. 51 del 1992 e dalle deliberazioni della Giunta n. 34 del 30 settembre 2002 e n. 20 del 10 marzo 2.008.
Malgrado gli incentivi finanziari promessi con gli atti prima citati per i dieci anni successivi alla fusione sia dallo Stato sia dalla regione, non ci sembra che l’iniziativa abbia riscosso in Piemonte un grande successo: dei 1.206 Comuni esistenti (di cui 628 con meno di mille abitanti), se non andiamo errati solo tre in provincia di Asti e due in provincia di Biella hanno sino ad ora deciso di fondersi. Si tratta dei comuni astigiani di Colcavagno, Montiglio e Scandeluzza che hanno dato vita al nuovo Comune di Montiglio Monferrato, e di Mosso Santa Maria e Pistolesa che hanno costituto il nuovo Comune di Mosso.
Mentre ci riserviamo di esprimere prossimamente alcune riflessioni sull’argomento e in tema di piccoli comuni in genere, va detto anche che, in base alle norme vigenti, l’istituzione dei nuovi comuni deve avvenire con legge regionale (L.R. n. 65 del 1997 per Montiglio Monferrato e n. 32 del 1998 per Mosso), cosa che certamente non semplifica la trafila delle procedure burocratiche necessarie.
Con “l’unione”, invece, due o più comuni mantengono la loro identità e autonomia ma costituiscono un nuovo ente per gestire in forma associata una pluralità di funzioni di loro competenza.
In questo caso in Piemonte le fonti normative sono costituite dall’art. 32 del già citato Testo Unico sugli enti locali n. 267 del 2000 e dalla legge regionale n. 44 del 26 aprile 2000, attuativa del decentramento amministrativo.
L’art. 5 di detta legge individua i livelli ottimali di esercizio associato delle funzioni da parte dei piccoli comuni e stabilisce che l’unione che si va a costituire non deve avere meno di 5.000 abitanti, i comuni che si uniscono devono essere contigui e appartenere alla stessa momunità montana e alla stessa provincia, i loro consigli devono approvare l’atto costituivo e lo statuto del nuovo ente, individuandone organi, funzioni, risorse e modalità di funzionamento.
Lo stesso articolo 5 precisa inoltre che nelle zone montane la comunità montana costituisce il livello ottimale per tutti i comuni che la costituiscono, anche in deroga alla soglia minima demografica dei 5.000 abitanti.
L’unione presenta molti vantaggi: ha grande flessibilità ed autonomia, ha piena capacità operativa su tutte le funzioni comunali, non prevede obblighi di fusione, anche se, trattandosi di un ente aggiuntivo, comporta ovviamente qualche spesa in più.
Si tratta indubbiamente dell’istituto associativo che – tra quelli possibili, comprendenti anche la convenzione (una vera e propria forma di contratto) e il consorzio (quasi sempre però solo monofunzionale) – è stato maggiormente utilizzato dai Comuni piemontesi.
Vuoi perché l’unione è più agile, vuoi perché le comunità montane sono state automaticamente considerate unioni di comuni, e un ruolo è stato dato anche alle comunità collinari, ci risulta siano attorno agli 850 su 1206 i comuni piemontesi che hanno dato vita sino ad oggi ad oltre 50 unioni.
Franco Bertoglio