In un articolo del 28 ottobre su La Stampa veniva riportato con un certo trionfalismo il riscatto della montagna invernale dopo anni di buio. E a riportarla in auge, niente poco di meno che una visione passatista, fatta di rimpianto per gli anni ’80, definiti gli anni d’oro delle località montane più “in”, con il ritorno di turisti in stile Vanzina ma declinati nel mondo 2.0: dove è più importante esserci virtualmente (magari su uno dei tanti social network) che non esserci fisicamente, perché in centro a Cortina così come a Milano nulla cambia, se non lo sfondo.
Ecco che la montagna come tela, come contorno, è stata al centro di un modo di esserci, lento, pop e godereccio, che pare stia tornando di gran moda.
Ma di lento, lo stile “Vacanze di Natale”, non ha nulla. Anzi, quel modello è l’esacerbazione di uno stereotipo che ha rovinato la montagna. “Vacanze di Natale” può quindi essere preso quale dato antropologico per constatare la salita della città in montagna, la costruzione di immagini di quest’ultima quale luogo di puro divertimento, dell’iperaffollamento in periodi di alta stagione con conseguente sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti e colonizzazione delle immagini mentali (arma ancor più potente della colonizzazione fisica, che pur vi è stata, basti pensare allo sviluppo urbanistico di molti comprensori sciistici).
Una confutazione a quanto detto è lecita, e l’anticipo: questo modello ha dato lavoro e ha permesso di rimanere in montagna a molte famiglie operatrici nel settore della ricettività e della ristorazione così come nelle pratiche sportive. Se questo è doveroso da riconoscere, altrettanto vero è evidenziare che attualmente numerose famiglie si stanno interrogando sullo sviluppo di aree montane e sulla diffusione di una cultura turistica diversa. E questo, purtroppo, non sempre emerge o è preso nella dovuta considerazione.
La visione citata poc’anzi non è pur tuttavia frutto della fantasia di un nostalgico, poiché è supportata da dati che ci indicano una ripresa incontrastabile dello sci da discesa, capace di richiamare nuovi adepti tra i giovani-adulti, con una crescita della spesa media a persona e il rilancio della settimana bianca quale antidoto alla crisi e status symbol della ripresa di una certa fiducia e di un certo benessere, che si ripiega anche nella ricerca di beni quali il buon cibo e la cura della persona nei numerosi centri benessere che stanno sorgendo.

A volte, queste attrattive sono in grado di sovrastare la visione della montagna quale luogo di pratica sportiva; emergono così gli Slons (snow lovers no skiers), ossia gli amanti della neve ma non dello sci. E qui entra in gioco un altro fattore: la montagna invernale è attraente se ha la neve, perché riconduce a un’atmosfera natalizia, perché ci si può scaldare guardando un camino stile tirolese. E ancora stereotipi.
Al di là dell’interrogarsi sul fatto che in montagna c’è sempre meno neve nel periodo vacanziero, per buona pace di De Sica, occorre domandarsi se tale ritratto è parte di un trend generale o no.
Questi dati, che provengono da Skipass Panorama Turismo – Osservatorio Italiano del Turismo Montano, tengono in considerazione 61 località sciistiche sparse sul territorio nazionale che costituiscono il corpus sul quale disporre delle previsioni per la stagione prossima a partire (Skipass Panorama Turismo, Modena Fiere – JFC).
Inevitabilmente la montagna, già nella scelta del campione, appare sfalsata: montagna=sci.
Ma lo sci, si sa, non può essere cancellato del tutto dalle riflessioni sul turismo in montagna, e allora domandiamoci se i trend proiettati non possono essere validi anche per altre località. Se gli Slons nelle località sciistiche hanno una determinata caratterizzazione, il modello appare interessante se trasposto in quelle in cui lo sci manca. Sicuramente non perde di validità, almeno nel suo significato linguistico, poiché sono in crescita i turisti che non praticano attività sportive o che le praticano ma in modo lento.
Lo scarto lo fa quindi l’attitudine del singolo o la località? E come si influenzano a vicenda? Gli Slons, visti come goderecci e amanti della mondanità nelle località sciistiche, non possano essere visti come accorti e responsabili in altri luoghi? E non sarebbe ora di prendere a campione anche aree in cui lo sci non è stato il cavallo di battaglia per più di mezzo secolo?
Ora, si tratta di studiare un fenomeno per il quale molti aggettivi sono stati impiegati – da sostenibile a responsabile, a dolce e lento – ma non di semplice definizione. Innanzitutto in quanto inquadrato nelle statistiche, poche a dire il vero, più generali (problema riscontrato nel IV rapporto della Convenzione delle Alpi). In secondo luogo perché, qualitativamente, è stato finora definito per contrapposizione a un modello dominante ed egemonico, quello del turismo industriale. In terzo luogo in quanto visto come “alternativo” a quest’ultimo e, inevitabilmente, giudicato di minore importanza, confinato e destinato a rimanere all’ombra di un gigante fagocitante, quello del turismo intensivo basato sulla monocoltura dello sci.
Un dato interessante su cui riflettere perviene dalle statistiche nazionali sul numero di arrivi e presenze (Impresa Turismo, 2013): la montagna invernale decreta numeri minori rispetto a quella estiva.
Appurato poi che numerose ricerche internazionali parlano ormai di una montagna post-turistica, quale superamento del tout-ski delle stazioni invernali (Bourdeau, 2009), si può giocare sulle coppie di opposti, almeno in un momento iniziale, e come è stato fatto finora.
Emerge così che se il turismo dello sci, quello industriale, è intensivo, pesante, universale, esclusivo, basato su scale territoriali sempre più ampie, molto rarefatte seppur destinate all’omologazione, esogeno, corporativo, autoreferenziale e dipendente da fattori esterni e incontrollabili, fortemente stagionalizzato e, infine, risolvibile in un mordi e fuggi; il turismo artigianale, invece, è un turismo estensivo, leggero, relativo, inclusivo, basato su scale territoriali piccole ma dense, endogeno, comunitario, extra-referenziale, destagionalizzato e indipendente da fattori esterni e incontrollabili.
Ma come studiarlo? Per studiare un fenomeno occorre definirlo, e non più solo per contrapposizione. Una ricerca condotta all’interno della rete Sweet Mountains, relativa ai territori montani di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta, finanziata dalle Fondazioni Giovanni Goria e Crt nell’ambito dei “Talenti della società civile” e supervisionata dalla prof.ssa Federica Corrado, sta tentando di definirne i contorni per tratteggiare degli idealtipi utili ai fini di un’analisi territoriale che possa poi essere convalidata in un futuro da dati quantitativi, se cambieranno i modi di raccolta dati. L’approccio qualitativo e l’analisi microscalare appaiono, ad oggi, i metodi migliori per lo studio scientifico del fenomeno.
Sicuramente, una mappa geografica del turismo artigianale è utile in quanto mostra aree interstiziali nelle alte Valli e una discesa più capillare nelle medie e basse Valli, con il rilancio di territori finora neanche ricompresi nei più grandi studi sul turismo, almeno per quello invernale.
Il turismo artigianale si definisce dolce e lento perché ha un approccio di curiosità e di scoperta per i territori, non ricerca la mera riproduzione di una visione di montagna data dalla pianura ma ne scova i tratti caratteristici e le mille sfaccettature. Il turismo artigianale è fatto dai singoli e da gruppi di persone, non dalle grandi S.p.a. o multinazionali; predilige il contatto diretto con l’ospite e lo accoglie mostrandogli che non sempre vi è un camino tirolese ad aspettarlo, ma l’atmosfera appare non di meno calorosa. Esso non vive solo di turismo ma di attività complementari che ne decretano la polifunzionalità. La sostenibilità (ambientale, sociale ed economica) non è mero slogan bensì base per la stessa vitalità del comparto.
Le mille sfaccettature del fenomeno e l’alta conformazione alle caratteristiche territoriali non significano che questo non sia riproducibile in altri contesti, anzi. Mancano però indirizzi validi ai fini di tracciarne una strada. Occorre quindi non più dire solo cosa non è ma incominciare a dire cosa è e come può emergere per fare la differenza nei nostri territori delle Alpi dell’Ovest. La ricerca scientifica basata sulla selezione di aree campione, sull’evidenza di buone pratiche e sulla restituzione dei risultati in termini di linee guida e d’azione può quindi offrire strumenti utili che la ricerca quantitativa non è, ancora, in grado di offrire.
Maria Anna Bertolino