Perrin J. C., Bassignana M., Favre S., Remacle C., Bétemps A., Philippot L., Muri d’alpeggio in Valle d’Aosta. Storia e vita, Priuli & Verlucca, Scarmagno (To), 2009.

Muri d’alpeggio non è solo un’approfondita ricerca sull’architettura degli alpeggi della Valle d’Aosta accompagnata da alcune riflessioni di carattere antropologico ed etnografico sul mondo contadino, ma è soprattutto un libro sulla montagna. Questo perché restituisce in modo efficace l’immagine di un mondo in cui la presenza umana è indissolubilmente intrecciata con il territorio – un mondo in cui i ritmi e i cicli della vita e del lavoro, le identità e i saperi si sono stratificati come la terra e le pietre con cui nei secoli si è costruito l’habitat rurale – caratteristica irriproducibile del mondo alpino. La descrizione fisica dell’architettura e del paesaggio rurale compenetra la dimensione umana dipingendo un cosmo in cui gli usi e le forme del territorio si situano in una stupefacente consequenzialità. La logica funzionale degli spazi, la razionalità di ogni scelta costruttiva, la ricerca poetica nelle forme primitive del costruire, l’utilizzo intelligente di materiali reperiti in loco, danno vita ad architetture che diventano non solo parte del paesaggio ma “il” paesaggio. La fatica richiesta per la posa di ogni singola pietra che compone i muri di questi alpeggi richiedeva una saggia e consapevole ottimizzazione delle risorse e dei gesti. L’armonia che oggi noi percepiamo nell’osservare questi luoghi nasce proprio dal fatto che i materiali e le azioni del costruire fossero il frutto di misura, necessità, intelligenza, passione. I vincoli imposti dalla disponibilità limitata di materiali, dalle qualità tecnologiche degli stessi, dai limiti “muscolari” di uomini e bestie, dalle caratteristiche orografiche e ambientali, suggerivano una giusta misura che sottendeva costantemente alla progettazione e alla realizzazione degli edifici e si traduceva, da un punto di vista estetico, in una sorta di continuum con la geomorfologia dei luoghi.
Queste “architetture senza architetti” nascono dunque da una padronanza consapevole e colta delle soluzioni spaziali e tecnologiche più adatte per costruire in un ambiente così severo, legittimandosi dal confronto continuo con le caratteristiche più intime dell’ambiente e con le risorse intrinseche del territorio. Da un lato dunque la razionalità costruttiva richiedeva chiarezza strutturale e compositiva che andava, dall’altro lato, declinata in modo specifico rispetto alle condizioni al contorno imposte dalla montagna. Nello scorrere i numerosi esempi di architetture di alpeggio prese in analisi nella ricerca colpisce il gran numero di varianti tipologiche con cui si articolano gli edifici in relazione al territorio. Questi sembrano seguire la strada di un’organicità non retorica, che non risparmia i segni decisi propri di un’idea laugeriana dell’architettura ma che con grande adattabilità, attraverso anche i più minimi aggiustamenti, introduce variazioni sul tema e distorsioni mettendo in forma una sorprendente coerenza tra il dentro e il fuori, tra la parte e il tutto, tra il naturale e l’artificiale. Una grande lezione di “sostenibilità” che nasce in modo spontaneo dalla cultura della gente di montagna e costituisce ancora oggi uno straordinario bagaglio di conoscenze cui è importante guardare, non come un nostalgico ricordo per un mondo arcaico che nessuno sarebbe più disposto a far rivivere ma come un fecondo riferimento per imparare ad abitare in modo più profondo e consapevole le Alpi di domani.
Roberto Dini