Recentemente sono stato coinvolto, su invito del collega antropologo Bogdan Iancu (Snspa di Bucarest), in una ricerca socio-antropologica nei Carpazi orientali, in Romania: scopo del lavoro era quello di studiare le trasformazioni demografiche e sociali in un’area geografica che, a vent’anni dal crollo del sistema socialista, è interessata tanto da nuovi processi di turistizzazione, quanto da crisi socio-economica e crescente emigrazione internazionale, spesso proprio verso l’Italia. Per capire quel vasto territorio, poco noto tra chi si occupa di studi alpini, è stato necessario innanzitutto fare un passo indietro, riconsiderando proprio l’impatto che il regime di Ceaucescu ha avuto sulle terre alte rumene.
La politica del regime socialista rumeno nei confronti della montagna presenta delle peculiarità rispetto al più ampio intervento volto ad affrontare la “questione agraria” nazionale: il noto fenomeno della collettivizzazione delle terre, infatti, ha riguardato pochissimo le aree di montagna, limitato o impedito dalla natura fortemente dispersa degli insediamenti, dalla loro remota ubicazione e, soprattutto, dalle scarse possibilità di sfruttamento intensivo dei terreni e dei pascoli in quota. Oltre 2800 villaggi montani non furono mai collettivizzati ed ampie porzioni di pascolo rimasero di uso comunale, mentre ai contadini venne lasciato il possesso dei propri piccoli appezzamenti di terreno.
Gli interventi del regime, anche se spesso in modo non intenzionale, favorirono di fatto in molte zone la permanenza delle comunità autoctone nelle terre alte: innanzitutto, la realizzazione di impianti industriali nelle città di fondovalle offriva spesso agli uomini (pendolari giornalieri tra montagna e città) un impiego stabile e remunerato, nell’ottica di economie di diversificazione basate sulla complementarietà tra redditi da agricoltura e da lavoro operaio. Una quota di lavoratori era poi assorbita nel settore forestale e della cura del territorio montano, oltre che nel settore minerario, in settori economici sotto il controllo dello Stato. In secondo luogo, l’infrastrutturazione delle zone montane messa in campo dal regime, in termini tanto materiali (strade e trasporti pubblici, che collegavano alle città anche i villaggi più remoti), quanto di servizi socio-sanitari e culturali (scuole, presidi sanitari, centri culturali rurali), garantiva quell’offerta minima ma costante di facilitazioni, grazie alle quali era possibile continuare a vivere in montagna. Infine, un terzo elemento era rappresentato dalle garanzie di stabilità e di prevedibilità rispetto alla vita quotidiana, offerte da un sistema politico-economico centralizzato e pianificato, rispetto, per esempio all’acquisto della lana oppure alla raccolta dei manufatti tradizionali lavorati dalle donne nei mesi invernali.
Il crollo del sistema socialista ha impattato drammaticamente anche e soprattutto sulle aree montane carpatiche: tra le principali conseguenze, la chiusura delle fabbriche statali di fondovalle e delle miniere, il collasso degli enti pubblici che si occupavano della manutenzione del territorio, la fine della raccolta centralizzata dei prodotti locali, la privatizzazione selvaggia delle terre già legate ad usi civici e, non da ultimo, la drammatica crisi dei servizi e delle infrastrutture che il sistema pubblico garantiva (anche se con standard spesso minimi) alle zone di montagna.
Effetti evidenti si sono inoltre manifestati a livello socio-demografico: innanzitutto il diffuso e drammatico spopolamento della montagna (per l’emigrazione verso l’estero, il ridursi dei tassi di natalità e l’invecchiamento della popolazione); poi il radicalizzarsi della dimensione della sussistenza in agricoltura, per fattori quali la difficoltà di raggiungere i mercati urbani, la riduzione nell’estensione degli appezzamenti in possesso dei contadini e il prevalere nel tempo delle famiglie di anziani, che integrano la pensione con l’autoproduzione di generi alimentari. Non da ultimo, la crisi ha prodotto un crescente isolamento territoriale, socio-culturale ed economico delle terre alte rumene, sempre meno connesse alle città, sia perché venute meno le occasioni lavorative e commerciali urbane, sia per le difficoltà di collegamento città-montagna, dovute ad un sistema viario e dei trasporti seriamente compromesso.
La montagna oggi abbandonata dai giovani e dalla popolazione attiva è stata tuttavia, per un breve periodo, destinazione di un flusso di popolazione inverso, proveniente dalle città: se infatti tra il 1992 e il 2012 la Romania ha perso circa 3 milioni di abitanti (in primis per l’emigrazione), inizialmente questo fenomeno ha interessato maggiormente le aree urbane rispetto a quelle rurali. Infatti non furono pochi i cittadini che, rimasti disoccupati e colpiti da una crescita vertiginosa del costo della vita, si trasferirono nelle zone rurali e di montagna, in cerca di possibilità di lavoro in agricoltura e di alloggio a costi ridotti, spesso ospiti presso le famiglie di origine. Tuttavia, in un contesto territoriale gravemente compromesso come quello carpatico, le possibilità reali di inserimento per grandi numeri di nuovi montanari apparvero presto inconsistenti. In seguito all’adesione della Romania alla Ue, una successiva seconda migrazione ha spinto la gran parte di questi “ritornanti” verso l’estero (in Italia, innanzitutto), dove spesso sono andati a svolgere quelle attività contadine di montagna che non erano più redditizie nel proprio paese.
Nel quadro di queste trasformazioni montane, per molti versi di ordine regressivo, si va manifestando oggi con crescente importanza il fattore di cambiamento rappresentato dal turismo “rurale” (così definito dagli operatori rumeni del settore): in alcune aree dei Carpazi, più prossime ai centri abitati di fondovalle e con collegamenti stradali ancora praticabili, cresce il numero dei nuovi frequentatori delle terre alte. Si tratta innanzitutto di famiglie cittadine con bambini ma anche di giovani (in relazione alla nascente offerta di attività montane di leisure a carattere sportivo), che trovano accoglienza ricettiva in strutture di piccole o medie dimensioni, definite pensiuni.
Il caso specifico su cui si è concentrata la nostra ricerca è quello del villaggio di Fundata (1.300 m slm, la località abitata più alta di Romania, nei Carpazi di Transilvania). Qui i promotori e gli imprenditori di questo nuovo modo di vivere la montagna sono soggetti urbani, perlopiù provenienti da Bucarest e da Costanza: in parte sono ex emigrati dalla montagna, che, dopo aver accumulato un capitale con il lavoro in città o all’estero, sono tornati nel luogo di origine per aprire un’attività e per viverci essenzialmente nei mesi estivi; in parte maggiore, invece, sono soggetti che frequentavano quei monti per ragioni turistiche già durante il regime (quando esisteva una forma di “turismo di stato”) e che in essi hanno deciso di investire i propri capitali, con forme di residenza stabile o intermittente.
Sfruttando l’ampia disponibilità di terreni a basso prezzo e, in un secondo momento, l’accesso a fondi europei in sostegno dell’edilizia turistica di montagna, dalla seconda metà degli anni ’90 le pensiuni (caratterizzate da un improbabile pastiche tra stili “alpini”, “chalet svizzero”, “villa” e anche “castello”) sono proliferate, fino ad arrivare alle 20 presenti oggi, in un villaggio che conta circa 800 abitanti (meno della metà di quelli residenti 30 anni fa).
Si evidenzia così oggi la compresenza, nel medesimo territorio, di due categorie di abitanti assai diverse, ovvero quelli che, mutuando termini che usiamo in ambito alpino, possiamo definire come montanari “per forza” e “per scelta”: i primi (anziani, innanzitutto, ma anche persone in età lavorativa che non hanno avuto la motivazione o le risorse per emigrare) sembrano intrappolati nelle terre alte, in posizione di spiccata marginalità sociale, evidenziata dal ritorno di antichi modelli di sussistenza agricola, che sembravano tramontati definitivamente all’epoca dello stato socialista. I secondi, che assumono i tratti degli amenity migrants, sono invece detentori di risorse (economiche, culturali, relazionali) in virtù delle quali il loro insediarsi in montagna assume i connotati della scelta di libertà, collocata dentro una retorica di “modernizzazione rurale” che prende a modello (almeno in linea teorica) le tendenze del turismo sostenibile diffuse da tempo nell’arco alpino e sostenute dai fondi europei.
Le due categorie di montanari ritrovate nel caso di Fundata interagiscono poco o nulla per ora, se si eccettua la vendita di qualche prodotto caseario da parte dei contadini ai gestori delle strutture ricettive o l’assunzione stagionale di alcuni dei pochi giovani rimasti nei villaggi da parte degli albergatori. Questa sostanziale separatezza (i residenti storici chiamano le pensiuni “là dove stanno gli stranieri”) si evidenza particolarmente nell’accesso ai servizi e nelle possibilità di collegamento con la città: gli amenity migrants, che hanno ovviamente un tenore di vita molto più elevato dei contadini di montagna, sono (come direbbe il geografo Manfred Perlik) soggetti multilocali, ovvero abitanti temporanei delle terre alte, in grado di spostarsi verso Bucarest per fruire, ad esempio, di quei servizi di un welfare ormai totalmente privatizzato, inaccessibili ai “montanari per forza”. Vivono parte dell’anno in villaggi come Fundata, per poi tornare nella capitale o anche per spostarsi sulla costa del Mar Nero, dove spesso hanno altre attività economiche o dove passano periodi di vacanza. Il confronto tra il loro stile di vita e quello di chi sopravvive grazie ad un regime di sussistenza agro-pastorale appare impietoso.
Tuttavia, la ricerca effettuata nei Carpazi di Romania mi sembra aver messo in luce come solo un rinnovato (ancorché drammatico) incontro con la cultura e le pratiche connesse alla dimensione urbana possa innescare processi di cambiamento e di innovazione sociale in contesti montani così fortemente deprivati. Turisti e amenity migrants posso rappresentare tanto un elemento di ulteriore destabilizzazione di un sistema socio-territoriale in crisi, quanto l’occasione per la rivitalizzazione (in forme certo inedite e mutate) di alcuni tratti del mondo contadino di montagna e, con esso, del paesaggio culturale delle terre alte, stimolando forme di resilienza oggi sopite. Gli abitanti temporanei appaiono, almeno potenzialmente, dei mediatori culturali che possono offrire l’occasione per riannodare i rapporti tra città e montagna, compromessi con la fine del regime socialista, così come re-inventare dinamiche economiche locali in grado di passare dall’agricoltura di sussistenza a quella multifunzionale, secondo il modello (già sperimentato nelle Alpi) dell’integrazione diffusa tra sistema turistico e sistema produttivo locale.
Certo il rischio di colonizzazione culturale urbana appare evidente, così come quello ancora peggiore di una crescente separatezza tra mondi sociali che procedono a due velocità, o addirittura in direzioni opposte: nei Carpazi come sulle Alpi servono dunque politiche di accoglienza e di mediazione, interventi di accompagnamento all’insediamento temporaneo come stabile dei nuovi abitanti, creazione di spazi e occasioni di contaminazione creativa tra chi ha scelto di vivere le terre alte e chi invece vi si è trovato per necessità, affinché proprio da questa indispensabile dialettica emergano nuovi modello socio-economici territoriali. Al termine della ricerca condotta nei Carpazi di Romania, le etichette “per forza” e “per scelta” mi sembrano dunque ancora di più due facce della stessa medaglia rispetto al futuro delle montagne europee.
Andrea Membretti