Se affermassi che le Alpi non sono un territorio adatto a ospitare un evento come le Olimpiadi invernali potrei essere tacciato di sindrome nimby: non le vogliamo nelle Alpi, che le facciano altrove, come se altre regioni montane della terra avessero le caratteristiche per poter sopportare l’evento olimpico senza incorrere in perdite economiche e danni ambientali. La realtà è che i Giochi invernali, così come attualmente concepiti dal Cio (Comitato olimpico internazionale), come li abbiamo visti negli ultimi decenni, non sarebbero sostenibili per nessuna regione montana del mondo.

Il gigantismo dell’evento, le infrastrutture necessarie, il numero crescente di atleti e persone al seguito, le nuove discipline che aumentano a ogni edizione, i costi a carico della collettività fanno passare in secondo piano il cosiddetto spirito olimpico.
Se a Sochi il gigantismo ha toccato il suo apice per una esibizione muscolare da parte di Putin, faraone del terzo millennio, l’analisi delle esperienze olimpiche del passato, compreso quella di Torino 2006, non lasciano dubbi: località indebitate, costi lievitati rispetto alle previsioni, cattedrali nel deserto inutilizzabili una volta terminato l’evento. Negli ultimi anni tuttavia è successo qualcosa di nuovo, almeno nelle Alpi: candidature come quelle di Salisburgo per il 2010 e per il 2014, dei Grigioni per il 2022, di Monaco di Baviera per il 2018 e per il 2022, sono state sonoramente rigettate dalle popolazioni locali che, mediante consultazioni popolari, hanno espresso il loro dissenso verso la possibilità di ospitare i giochi. E negli anni Novanta la stessa cosa accadde in Italia per la Val Gardena e per la Valle d’Aosta. A Torino non si svolse alcuna consultazione popolare e probabilmente, nel caso si fosse svolta, grazie al potere massmediatico dell’allora comitato organizzatore e delle forze che lo sostenevano, ma anche per la scarsa lungimiranza dei torinesi, pochi avrebbero avuto il coraggio di esprimersi contro i Giochi. Col senno di poi, è probabile che qualcuno abbia nel frattempo cambiato opinione. Ma che cosa ha portato le popolazioni dei paesi alpini a respingere questo tipo di manifestazione? Oggi l’evento olimpico è un fuoco di paglia che per due settimane fa ricadere l’attenzione mediatica su una città, ma che poi lascia perlopiù pesanti eredità; la dimensione dell’evento e la conseguente infrastrutturazione non sono adatte agli spazi ridotti delle zone rurali di montagna; i dossier di candidatura sono lontani dalla realtà e a consuntivo vengono sempre disattesi, soprattutto in termini di costi; le zone rurali e montane, indispensabili per lo svolgimento di alcune gare, non hanno alcun potere decisionale; non vi è alcuna garanzia di poter coprire i costi con gli introiti e il rischio è tutto a carico delle località a causa dei contratti capestro imposti dal Cio. È probabile che nelle democrazie avanzate, così come nei paesi alpini, le Olimpiadi invernali nella forma attuale avranno sempre più vita difficile. Una riforma del Cio e delle regole sulla programmazione e sullo svolgimento dei Giochi sarebbe necessaria. Ma il Cio difficilmente prenderà questa strada: ci sarà comunque qualche Russia o Corea o paese “in via di sviluppo” sul quale contare per poter continuare a giocare.
Francesco Pastorelli

Sul tema dei Giochi olimpici invernali la Cipra ha recentemente pubblicato un dossier con una raccolta di esperienze dalle diverse località alpine che hanno ospitato o sono state candidate ad ospitare i Giochi olimpici invernali. Inoltre, in occasione della recente riunione di Presidenza dello scorso 8 febbraio, ha adottato una presa di posizione “Alpi libere da Olimpiadi”.