“Il sole si alza e scintilla sul Terek che si scorge dietro un canneto; ma le montagne… Dalla strada parte un carro, delle donne a piedi, belle donne, giovani; ma le montagne… Gli abreki si aggirano per la steppa, e io vado, non ho paura di loro, ho il fucile, e la forza, e la gioventù; ma le montagne…”.
Ho ripensato più volte ultimamente a questa pagina del racconto I Cosacchi di Tolstoj. Sono molti giorni ormai che, inchiodato al computer sia a casa sia in ufficio, scrivo provvedimenti, inserisco pareri, discuto al telefono e in videoconferenza, decifro decreti confusi che si rincorrono. Ma le montagne…
Non sogno cime estreme e lontanissime, penso al Catinaccio illuminato dal tramonto, al Cristallo, alle Tofane, al Gran Paradiso, ai laghi e alle cime sui piani del Nivolet, alle Grandes Jorasses e al Mont Dolent, al piccolo Mont Fortin, magnifico balcone verso la catena del Monte Bianco. E cento altre montagne, raggiungibilissime, sino a pochi mesi fa: bastava caricare scarponi e zaino in auto e partire. Ho voglia di risalire sulla cima del Sass Rigais, aperta sul mondo della Odle, di correre per gli ampi altipiani di Sennes e di Fosses, di entrare dentro le cascate di Fanes, di arrampicare la Torre Quarta e poi l’Inglese, nel gruppo delle 5 Torri, di volteggiare nella ferrata di Punta Anna, di ammirare i giochi di ombre e luci nel lariceto di Gwengwiesen, tra San Candido e Sesto, di sentire il silenzio e il profumo di quel bosco, e di tanti altri.
Nei giornali on line leggo assertive riflessioni su come eravamo e come saremo dopo il Coronavirus. Una noia mortale. C’è un solo rimedio – penso – per riflettere sulla pandemia senza impantanarmi tra i sermoni di questi giorni: un tuffo prolungato tra libri di storia e letteratura.
Provo ad approfondire il terribile precedente novecentesco, l’influenza spagnola, che si portò via decine di milioni di esseri umani. Scopro che colpì tra gli altri il presidente americano Thomas Woodrow Wilson, compromettendone la forza in un momento cruciale della conferenza di pace successiva alla Grande Guerra. Wilson auspicava rispetto delle autonomie storiche e linguistiche, e clemenza verso i vinti, ma alcuni vincitori approfittarono della sua debolezza per andare in senso contrario, creando forse le premesse del conflitto mondiale successivo. Purtroppo molti apprezzati manuali di storia (Villari, Salvadori, Melograni ecc.) non riportano nulla o quasi di quella terribile pandemia. Non ne parla neanche William H. McNeill, nel pur pregevole La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea (Einaudi, 1981).
Recupero un libro di Riccardo Chiaberge, 1918 La grande epidemia. Quindici storie della febbre spagnola (Utet 2016) e un articolo ben documentato La “spagnola”. Appunti sulla pandemia del Novecento di Roberto Bianchi (sul sito di Passato e presente), ma non molto altro. Più ricca la bibliografia sulla peste del XVII secolo.
Passo poi alla letteratura, e mi rileggo con gran gusto La storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, nell’edizione arricchita da una bella prefazione di Leonardo Sciascia. Memorabile il passaggio dove Sciascia, biasimando il comportamento dei funzionari e dei magistrati che condannarono a morte i presunti untori, respinge le riflessioni indulgenti degli storicisti “erano tempi bui”, “occorre capire il contesto”, evidenziando che non si trattava di soggetti succubi dell’ignoranza: quegli uomini sapevano che il complotto degli untori era frutto di isteria e creduloneria. Giusto quindi criticare il loro cinico assecondare il popolino nella ricerca di capri espiatori da odiare e da mandare a morte. La responsabilità individuale va sempre evidenziata, senza sconti.
Rileggo anche La maschera della morte rossa di Edgar Alla Poe – non uno dei suoi racconti migliori penso – e salto al Novecento. La peste di Albert Camus mi intriga ancora una volta: “…i nostri concittadini, apparentemente, faticavano a capire quello che gli era capitato. C’erano i sentimenti comuni, quali la separazione e la paura; ma si continuavano anche a mettere in prima linea le personali preoccupazioni. Nessuno ancora aveva realmente accettato la malattia; per la maggior parte, erano soprattutto sensibili a quello che turbava le loro abitudini o toccava i loro interessi”.
Non avevo mai letto invece Cecità di José Saramago, la storia di una pandemia che acceca gli umani riducendoli a un estremo degrado fisico e morale; è talmente crudele che fatico ad arrivare alla fine.
Infine, ripensando all’influenza spagnola, recupero le pagine di Mario Rigoni Stern, L’anno della vittoria. Il protagonista, il giovane Matteo, perde nello stesso anno la sorellina Orsola e Caterina il primo amore. “Caterina, che sembrava avesse superato la crisi, un pomeriggio del tardo novembre spirò. Matteo lo seppe nella bottega del fornaio della Mortisa dove si era recato per comperare un pane bianco per la sorella convalescente. Sentì il cuore restringersi come quando vide sua madre abbracciare Orsola e, ritornato a casa, stette per lungo tempo in silenzio e immobile a fissare le braci del focolare. Un vecchio dei Salbeghi che si era fermato a veglia forse per bere un bicchiere di vino, filosofò sulla morte: su quella dei poveri soldati in battaglia e su quella dei ragazzi e dei bambini che morivano di febbre spagnola. – Perché Dio fa morire così la povera gente? – si chiedeva. – E se la guerra è causata dalla cattiveria degli uomini, come dice il parroco, perché Dio vuole richiamarli sulla retta via, che cosa c’entra con questo la morte di una brava e bella ragazza come Caterina?”
No, nessun senso, solo un’infinita e irrimediabile fragilità.
E così, leggendo Manzoni, Camus e Rigoni riesco per qualche ora a non pensare alle montagne. Ma proprio tra le pagine di Rigoni, ecco affiorare l’altipiano dei 7 Comuni: i colchici primaverili, il vento che muove a ondate l’erba di Monte Fior e Castelgomberto, ombre e luci nel bosco Varagno, le fronde del ‘faggio di Gadda’ e le cime degli alberi nell’arboreto salvatico della sua casa in Valgiardini.
Troppo tempo lontano dalle montagne, troppo. Ma il mio rimpianto è nulla – penso – se provo a immaginare quello dell’anziano rifugista scomparso a inizio primavera, da solo, in un ospedale senza odori e colori. Ricordo i versi di Alfonso Gatto affissi vicino alla stufa del suo rifugio: “”Ogni uomo porta la sua faccia in mano / e faccia dietro faccia sino agli occhi / abbracciato con sé muore lontano”.
Lontano da tutto e da tutti, anche dalle montagne.
Giuseppe Mendicino