A cura di A. Villa, A. Audisio e A. Gherzi, Spartiti delle montagne. Copertine di musica, Priuli & Verlucca, Scarmagno. 224 pagine, 37,50 euro.

Ci si può innamorare di una montagna fino al punto di dedicarle una polka, un valzer, uno slow fox o un brano da cantare in coro? Risposta positiva ovviamente. Fa testo “Paganella”, brano per sole voci maschili molto conosciuto soprattutto nelle registrazioni del famoso Coro della Sat. Esempi suggestivi in proposito si contano anche tra i classici della canzone americana. “Moonlight in Vermont”, per esempio, è dedicato alla regione del New England il cui nome deriva dal francese e significa monte verde, proprio come la catena delle Green Mountains che attraversa lo stato.
Ora un affascinante libro di Priuli & Verlucca, “Spartiti delle montagne. Copertine di musica” (224 pagine, 37,50 euro), documenta attraverso le raccolte del Museo nazionale della montagna un ampio percorso di musica sulle gioie alpestri. L’incanto dei monti è tramandato soprattutto dalle pittoresche copertine degli spartiti.
Documenti definiti unici e insostituibili per la storia della montagna in musica, questi spartiti non soltanto per la prima volta vengono studiati e resi noti al pubblico, ma inducono a scoprire altri inediti gelosamente custoditi in raccolte private. Ne è un eloquente esempio il valzer “Ricordo del Mottarone” dedicato, appunto, “al primo cocuzzolo erboso che lo sguardo incontra dirigendosi verso le Alpi dalla pianura lombarda o dalle risaie del Novarese e del Vercellese”, per dirla con Alberto Paleari, guida alpina e scrittore, che a questo suo adorato cocuzzolo ha da poco dedicato per Monte Rosa edizioni il volume “Arrampicare, camminare, conoscere il Mottarone” (160 pagine, 22 euro).
A cantare le bellezze di questa vetta oggi occupata da seggiovie e skilift, da un’antenna per le trasmissioni televisive e da un’orrenda struttura chiamata “Alpiland” che la confina definitivamente nella dimensione di un rutilante luna park, fu un personaggio degli albori del secolo scorso, purtroppo ingiustamente dimenticato dai gelosi custodi dello scrigno in cui oggi è racchiusa la cultura alpina. Sulla copertina dello spartito di “Ricordo del Mottarone” illeggiadrita da fiori di campo, spicca in lettere dorate il nome dell’autore Giovanni Leoni (1864-1927) che evidentemente ci teneva a qualificarsi con la carica di cui si onorava e puntigliosamente si presenta quale presidente della Sezione dell’Ossola del Club alpino.
Lo spartito torna ora alla luce assieme a due altri firmati da Leoni e dedicati ad altrettante splendide vette ossolane, il Cistella e il Cervandone. A custodire questi preziosi cimeli sono i fratelli Gabriella e Camillo Boni nella palazzina di Mozzio (VB) in cui trascorrono le vacanze e dalle cui finestre lo sguardo si tuffa nelle verdi distese della Valle Antigorio, fino a perdersi tra le brume della Formazza su cui svetta la mole screziata di neve del Basodino.
È la gentile Gabriella a sfogliare, accendendo la curiosità dell’ospite, l’album della sua famiglia i cui destini si intrecciano con quella di Giovanni Leoni, che al pari dei suoi nonni emigrò in Uruguay alla fine dell’Ottocento con i cugini. “Leoni sed Boni”, avverte spiritosamente una lapide sulla facciata della palazzina di Mozzio (sorvegliata da due leoni di pietra) riferendosi alle due famiglie. Poco distante dalla palazzina dei Boni, la casa di Giovanni Leoni appare oggi in stato di degrado ma è ancora piena di cimeli. Una lapide ricorda come Giovanni rimpatriò ben volentieri dall’America latina per poter vivere in questa Arcadia tanto vagheggiata e amata. Fu Camillo Boni, figlio di una cugina di Leoni e zio di Gabriella e Camillo, a far pubblicare le sue Rime ossolane nel 1929 a Belluno.
Anche Camillo fu un artista ispirato, amico del pittore De Pisis. Qui all’ombra del monte Cistella, suo amore, Leoni si rivelò il più grande poeta dialettale che l’Ossola abbia mai avuto, adottando il nomignolo di Torototela, uno strampalato cantastorie che all’epoca si aggirava nelle pubbliche piazze. Le sue poesie esprimono la malinconia e l’ironia proprie del montanaro ossolano. Peccato che pochi le conoscano e che perfino il Cai se ne sia dimenticato nel tripudio delle celebrazioni per i 150 anni.
C’era in effetti, dietro il poetare di Leoni-Torototela, un’Italia umbertina che si esprimeva positivamente, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, anche nello spalancarsi del turismo popolare ai nuovi orizzonti offerti dalla montagna. Molte sezioni del Club alpino, a cominciare da quella di Milano, si prodigarono per “aprire le Alpi al popolo”. E molti mecenati, tra i quali il Leoni, raccolsero l’invito.
Ebbe una vita intensa e avventurosa il cavalier Leoni. Prima di rimpatriare e dedicarsi ai suoi valzerini alpestri, a 24 anni con il fratello Costantino creò a Montevideo la “Leoni Hermanos”, una proficua attività commerciale in tessuti e generi vari. Avido di emozioni più che di denaro, comprò una nave con quindici uomini di equipaggio e navigò le fredde acque della Patagonia trasportando ogni genere di merce. Nel 1886 liquidò l’azienda e rientrò in Italia dove visse di rendita fino alla morte.
Tuttavia, come si è visto, non rimase con le mani in mano e trasferì il suo attivismo in un’infaticabile opera di valorizzazione di queste valli, soprattutto l’Antigorio e la Divedro. “Per ammirare il vago spettacolo del tramonto e del sorgere del sole” fece erigere nel 1902 una capanna sul monte Cistella, e per sovrappiù le dedicò una polka finemente illustrata nella copertina dello spartito. Al Cervandone, che svetta sull’Alpe Devero, dedicò infine una canzone firmandosi con lo pseudonimo di Pastizza. Il cavaliere aveva compreso le risorse turistiche di questo incantevole alpeggio e fondò con lungimiranza negli anni Venti la Pro Devero. Una storia tutta da raccontare, e non è escluso che ciò avvenga ben presto in un film alla cui sceneggiatura sono interessati alcuni personaggi illuminati della “valle del Torototela”.
Roberto Serafin