Praticamente impossibile, per chi trascorre molto tempo in montagna, non imbattersi in buchi, crolli, strane morfologie dei pendii. Edifici abbandonati, ruderi con forma e logica non proprio uguale a quella delle baite dei pastori d’alta quota. Muretti a secco, ma con una linea che li rende diversi dalle recinzioni dei pascoli così diffuse. Il paesaggio ne è letteralmente disseminato, a ben saper guardare. Ma agli occhi distratti queste evidenze non dicono nulla. Esiste una necessità di informazione ormai urgente.
Sono le miniere. Le nostre Alpi sono ricche di minerali di ogni genere; le “terre alte” dal Piemonte al Friuli hanno vissuto millenni di storia di estrazione degli stessi, rendendo così possibile testimoniare e tramandare particolari “know-how” e tradizioni; dai Romani (per non parlare delle evidenze preistoriche tutt’altro che rare…) al Medioevo, proseguendo poi con il Regno Sabaudo e la Rivoluzione industriale, le montagne piemontesi fanno scuola, e non solo in termini alpinistici.
Le nostre radici affondano alla lontana fino agli avi minatori, nella gran parte dei casi: quei minatori di lunga tradizione che a un certo punto hanno dovuto emigrare, vista la crisi dell’economia italiana, per andare a lavorare nelle grandi miniere del centro Europa e oltreoceano (i bacini carboniferi parigini o della Ruhr in Germania, piuttosto che le miniere californiane e canadesi. Chi non ricorda la tragedia di Marcinelle, Belgio, dove i morti furono gran parte nostri compatrioti?). Gli italiani hanno le miniere nel sangue, nel Dna, tant’è che alcune delle scuole più prestigiose, fucina di alcuni dei più grandi tecnici di sotterraneo del mondo, si trovavano proprio nel Bel Paese: ad Agordo (Bl), Iglesias (Ca), Massa Marittima (Gr), si studiava per diventare “periti minerari”, ed era un marchio di fabbrica di cui andar fieri.
Ma chi se lo ricorda ancora?
L’arco alpino ha visto svilupparsi alcune delle più grandi realtà minerarie europee, in alcuni casi a livello mondiale; pensiamo all’oro del Monte Rosa, scavato su entrambi i versanti – Macugnaga e Alagna Valsesia – nonché a quello della Valle D’Aosta, al ferro di Cogne, ai solfuri misti delle grandi miniere di Brosso e Traversella, al rame e argento altoatesini, all’amianto delle valli piemontesi, liguri e lombarde; la lista sarebbe lunga. Uomini e donne, famiglie, paesi interamente vocati allo scavo e alla trasformazione della materia prima: troppo riduttivo chiamarli “villaggi minerari”, si trattava di intere comunità nate e cresciute con le miniere, strutturate per una vita permanente in quota o quanto meno in valle. Poi, la crisi. Altri mercati internazionali divennero più competitivi per maggiore dimensioni dei giacimenti e minor difficoltà di trasporto. Ci furono poi scelte politiche – che ad oggi possono essere considerate scellerate – destinate a cancellare per troppa superficialità migliaia di anni di storia e cultura: l’Italia decise “basta”, e si girò semplicemente da un’altra parte. Così gli anni ’60, ’70 e al più tardi ’80 videro la chiusura della pressoché totalità delle nostre miniere, senza alcun tipo di strategia per il futuro, né pensiero consapevole. Intere popolazioni di montagna non trovarono altra soluzione che migrare verso le pianure e le fabbriche delle città satellite, perdendo le loro radici.
Ma oggi che cosa resta?
Nel migliore dei casi, nulla. O meglio, nessun problema grave. In altri casi, eredità scomode da sopportare: crolli superficiali, inquinamenti pesanti dei terreni, stabilimenti fatiscenti e da bonificare con costi mostruosi (sulle spalle di chi?), degrado. Non possiamo permettere che le nostre miniere siano ricordate solo come sterili cunicoli bui, pericolosi, o discariche incontrollate; proviamo finalmente a ridare dignità a tutta la storia che celano, almeno riesumando – dove possibile – parte di quelle strutture, di quei luoghi in cui i nostri antenati trascorrevano la loro durissima vita, per garantire un futuro alla famiglia. La coscienza da parte di qualche fiero discendente dei minatori sta rifacendosi viva: alcune associazioni culturali provano a ridare luce alle gallerie e ai ricordi, promuovendo iniziative. In tale direzione vanno le miniere-museo, che però in tempi di crisi devono fare i conti con problemi di gestione mica da ridere, come tutti.
Ci sono nuovi segnali?
Sì, perché accanto ad antiche realtà come il talco della Val Chisone, il migliore del mondo, che oggi dà ancora sostentamento a decine di famiglie, seppure i minatori ora parlino polacco e non piemontese, o alle valli dell’Ossola, dove alcune pietre da taglio uniche in bellezza continuano a prendere la via della pianura e delle case di lusso extraeuropee, perché la loro qualità le fa vincere in lunghezza sulle pietre asiatiche, più economiche, altre piccole miniere “artigianali”, a volte di gemme, stanno facendosi strada. Ed è un fenomeno che, nell’ottica del “chilometro zero” e dello sviluppo sostenibile, potrebbero far rivivere le pietre locali, una volta considerate la “pagnotta dignitosa” per le piccole attività familiari. Nelle case, nelle piazze, le nostre rocce autoctone hanno sempre fatto la loro figura. E oggi, ancora una volta, questa potrebbe essere una delle strade per ridare vita all’economia della montagna.
Claudia Chiappino
Articolo conciso e bellissimo. Rende perfettamente l’idea delle condizioni di vita di chi metteva sul tavolo alla famiglia pane e miniera, molto spesso al prezzo di malattie professionali mortali o fortemente debilitanti. La necessità di non slegare le economie montane e la loro realtà dai percorsi cittadini, troppo antropizzati ed in cui i valori si disperdono. Strizzerei un occhio anche ai piccoli cercatori/amatoriali come me che appena possibile dedicano il loro tempo a riscoprire presidi geominerari di quart’ordine, spesso dimenticati già sul nascere, terreni vociferati, assaggi, supposizioni toponomastiche derivanti da cattive traduzioni o trasmissioni verbali padre-figlio…, passando giornate splendide ed unendo sovente al dilettevole anche una buona pulizia del suolo dai segni dell’inciviltà. Non siamo pochi e spesso ci risulta avvilente vedere certi “recuperi strutturali” divenire “musei” a pagamento nei quali paghi il biglietto e sei spettatore di qualcosa che fu e che non puoi assolutamente far rinascere come parte partecipe e attiva. Da disoccupato decennale, creda, scalda il cuore leggere che a qualcuno interessi ancora tenere aperto il ponte tra la città e la tradizione montana. Cordialità.