M. Marcantoni e G. Vetritto (a cura), “Montagne di valore. Una ricerca sul sale alchemico della montagna italiana”, Franco Angeli- tsm, 2017, 131 pp.
Il “sale alchemico” di cui si parla è il capitale sociale, cioè “quella sostanza un po’ misteriosa, poco visibile, ma realmente efficace, che tiene insieme le società” ed è quindi un “asset fondamentale dello sviluppo” (p.34-35). Lo studio si chiede in che misura questa risorsa locale sia presente e attiva nella montagna italiana e a tal scopo la confronta con il suo opposto, cioè la pianura, utilizzando una serie di indicatori. A differenza di altri studi che si basano su aggregazioni di comuni, qui il confronto avviene tra le 19 province in cui la superficie montana supera i 2/3 del totale e le 26 province “opposte” che sono per almeno i 2/3 pianeggianti. Sembra una scorciatoia e forse anche lo è, ma sul piano concettuale è un fondamentale passo avanti rispetto all’idea ancora dominante della montagna come semplice aggregato di comuni rurali più o meno marginali. Infatti nelle province “montane” la simbiosi di rurale e urbano fa sì che la montagna diventi “centrale” e non sia semplicemente “un residuo, un ambito posto ai margini di qualcos’altro”. Sia (o possa essere) formata da sistemi territoriali in ciascuno dei quali si vive “con la montagna e per la montagna” (p.93).
Purtroppo la configurazione orografica dell’Italia non permette di dividerla facilmente in sistemi di questo tipo, in quanto predominano le province “ibride” formate da pianura, montagna e collina. Di conseguenza resta fuori dal confronto più di metà della superficie montana del paese, mentre il suo “opposto” di pianura lascia fuori città metropolitane “ibride” come Milano, Roma, Napoli, Torino, Genova e Bologna. Bisogna dire però che a queste esclusioni rimedia il costante confronto con le medie nazionali. Un altro inconveniente deriva a mio avviso dal fatto che in alcune province, come ad esempio Savona, Massa Carrara, Lucca e Olbia, le frange non montane, che possono riguardare fin a 1/3 del territorio provinciale, presentano presumibilmente valori piuttosto diversi da quelli delle parti più propriamente montane, in particolare per quanto riguarda demografia, infrastrutture, innovazione e internazionalizzazione, col rischio di attribuire a questi sistemi provincial-montani qualcosa che non appartiene loro del tutto. Comunque, anche tenendo conto di queste difficoltà, i risultati dello studio sono sostanzialmente validi e permettono di smantellare alcuni pregiudizi che continuano a influenzare il pensare comune e purtroppo anche le politiche che ritengono la montagna strutturalmente inadatta allo sviluppo.
L’analisi dei fattori che incidono sullo sviluppo, condotta da M. Baldi e V. Coletta, dimostra il contrario. Il fattore “capitale umano” rivela una montagna che rimane tuttora demograficamente meno vitale della pianura, ma che a partire dall’inizio del nostro secolo segna una ripresa demografica. I laureati crescono un po’ di più che in pianura e il tasso di abbandono scolastico è più basso. Lo spirito di responsabilità condivisa (coesione e inclusione sociale, pari opportunità di genere) nella montagna è nettamente superiore rispetto alla pianura e in parte anche alla media nazionale. Ancora più netto è il distacco positivo per quanto riguarda legalità, senso civico e qualità dei servizi (cultura, sanità e tutela ambientale), dove gli indicatori sono anch’essi al di sopra della media nazionale. Si ha invece un deficit della montagna per quanto riguarda gli indicatori di infrastrutture e logistica, dovuto anche agli ostacoli opposti dal rilievo. Per quanto riguarda innovazione e internazionalizzazione sia la pianura che la montagna sono al di sotto della media nazionale (ovviamente influenzata dalle grandi città), con un leggero svantaggio della montagna. La conclusione è che la montagna è adatta allo sviluppo e va sviluppata con vantaggio suo e nazionale: basta trasformare le sue qualità distintive in vantaggi competitivi. Tra questi aggiungerei le dotazioni paesaggistiche, quelle ambientali naturali e i flussi di servizi ecosistemici, fattori che non sono oggetto specifico di questo studio, ma che intervengono non solo per il loro valore oggettivo (pensate all’acqua, all’agricoltura ecc), ma anche perché alimentano un immaginario collettivo che fa della montagna un potente attrattore e diventa così una componente non trascurabile del cambio di paradigma delineato da Giovanni Vetritto nel 2° capitolo dedicato alle politiche pubbliche. Oltre a questo capitolo la I parte contiene anche un capitolo in cui Mauro Marcantoni parla di durezza e fragilità della montagna, del suo possibile sviluppo, di globalizzazione, comunità, matrici identitarie legate ad agricoltura e turismo, innovazione dematerializzata e trasformazione dei vincoli in opportunità. In un terzo capitolo (“Opinioni a confronto”) N. Delai tratta del capitale umano, A. Salsa di coesione e legalità, F. Lasco di qualità dei servizi, B. Zanon di innovazione e montagna.
Con questo studio, svolto in collaborazione con il Censis e con l’appoggio del Dipartimento per gli affari regionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la Trentino School of Management (tsm) si conferma come uno dei principali centri di ricerca e di elaborazione originale sui problemi della montagna. La ricerca può aprire la strada a un ulteriore lavoro sistematico di individuazione, anche al di là dei limiti amministrativi, dei sistemi funzionali montani gravitanti su una o più città, cioè di quei “corpi inseparabili” di cui già parlava Carlo Cattaneo e che ancor oggi sono i potenziali attori collettivi di uno sviluppo locale dotato di qualche autonomia
Giuseppe Dematteis