Non sono pochi gli studiosi di economia che sostengono come le crisi che stiamo vivendo siano anche alla base della crescente instabilità che si manifesta nelle filiere produttive e nelle relative catene del valore e che, a seguire, si ripercuote sulle più generali dinamiche della globalizzazione.
Complici di questi eventi, che accentuano gli esiti depressivi delle stesse crisi, risultano essere le tecnologie digitali, note anche a tutti noi, e le conoscenze tecniche e scientifiche che, attraverso le prime, si disancorano dai territori in cui vengono alla luce per muoversi alla ricerca dei luoghi più convenienti dove poter essere impiegate, ovvero laddove il costo dei fattori generativi della produzione risultano maggiormente vantaggiosi.
A dimostrazione dell’interesse e delle preoccupazioni che suscitano queste instabilità, si nota come già alla comparsa dei primi sintomi di una crisi venga posto con urgenza il problema di quali misure adottare per realizzare la congiunzione tra l’esperienza traumatica e le traiettorie di lungo periodo del sistema socioeconomico. L’imperativo è che i percorsi per uscire dall’emergenza riaggancino almeno le direzioni già intraprese e comunque garantiscano le modalità di generare valore.
In questo terreno sconnesso e scivoloso non solo nei territori, ma anche nei settori in cui si ripartiscono le attività economiche, si delinea sempre più chiaramente la comparsa di una componente sociale propulsiva e di una inerziale.
La prima è innovativa nel presente; sa dove vuole arrivare, sfida i rischi che l’agire in un orizzonte di medio-lungo periodo comporta, fa delle crisi un’esperienza da cui apprendere per il divenire; costruisce, insomma, il futuro senza aspettarlo.
La seconda è invece attendista; guarda e vive nel presente confuso, disordinato, liquido e percorre solo le rotte erratiche che l’immediato propone.
Se con questo approccio guardiamo la montagna, così come viene descritta nei contributi che seguono, possiamo prendere atto che in essa si è andata e si va formando una parte propulsiva che attraverso il suo agire la reinterpreta, la ri-patrimonializza e ne costruisce i linguaggi e i modi pertinenti per leggerla e per rappresentarla. Come in altri numeri della rivista e in altre ricerche, viene posto in evidenza anche l’opposto, ovvero una montagna “debole” e, suo malgrado, resa passiva, rinunciataria, in larga misura silente e talora anche rancorosa.
Va osservato che in tutti gli ambiti montani si manifesta la compresenza di queste componenti, seppure quella debole prevalga in quelli più interni, nelle valli laterali e marginali.
Questi fenomeni pervasivi non sono comunque un fatto da poco e neanche consolatorio per almeno due ragioni.
La prima è che essi liberano la montagna da quelli che venivano proposti quando lo sviluppo dell’avampaese era ai suoi apici e di essa si consumavano le risorse naturali e ambientali, la disponibilità di lavoro e le trame insediative; soprattutto si svalorizzavano la cultura del lavoro e l’impegno produttivo che caratterizzava la storia dei nostri avi, senza curarsi di ricostruirla.
La seconda, assai più stringente, è che le forze e le manifestazioni propulsive si manifestano qui, sebbene sia in atto nel Paese la più prepotente transizione demografica che restringe la sua base demografica e la fonte del potenziale umano impiegabile per le intraprese; in parallelo, si rivelano quando molte delle unità che fanno parte di importanti catene produttive migrano dal locale/regionale al globale anche lontano e profondo.
A fronte di questi risultati, che fanno ben sperare, non dobbiamo dimenticare che il tempo che stiamo vivendo non si è ancora concluso; siamo solo a metà di un guado che si deve misurare con la mobilità strutturale di cui la globalizzazione è l’interprete. Mai come ora il “che fare?” diventa di attualità.
Proprio l’economia e la sua storia ci insegnano ancora come in queste fasi non è né sufficiente compiacersi della presenza degli innovatori, per avvalersi della forza e delle potenzialità dei loro cambiamenti, né lasciare al loro destino (segnato) i perdenti.
Dobbiamo quindi preoccuparci di almeno due cose.
Innanzitutto bisogna tentare di coniugare le due componenti nell’ambito dei territori in cui convivono e si confrontano attraverso l’allestimento di progetti comuni, affinché i primi non trovino convenienza a migrare o a tagliare i cordoni ombelicali con il loro territorio di origine, determinando un esito catastrofico per chi rimane, e i secondi non peggiorino la qualità del contesto di vita e di lavoro attraverso l’apatia e l’indifferenza, ma trovino invece lo slancio per migliorarlo ed arricchirlo. Questo non è un esercizio vano perché è alla base della formazione dei cluster e delle reti cognitive che nutrono e radicano le catene del valore e mettono insieme le operazioni necessarie per collocare il prodotto su mercati sempre più estesi.
La seconda preoccupazione, legata alla prima, consiste nel prendere sul serio il risveglio di quella che viene succintamente chiamata l’“Europa sociale”, cioè il deciso mutamento di rotta assunto dall’Unione europea a seguito delle rovinose conseguenze sociali ed economiche prodottesi con la crisi del 2008 e poi acuite dalle emergenze della crisi climatica e della pandemia.
A questo proposito va ricordato che il PNRR raccoglie solo una parte dei fondi europei e nazionali che ricadranno sui territori nei prossimi anni. Se da questa disponibilità finanziaria senza precedenti si dovesse solo recuperare la quota di PIL che si genera attraverso l’impiego degli investimenti programmati, senza la preoccupazione di associare anche quelle del “valore aggiunto territoriale” che parallelamente possono originarsi, ogni sforzo per consolidare e rilanciare la nascente centralità della montagna potrebbe risultare vano.
Cesare Emanuel
Salve! Diamo opportunità di lavoro in montagna! A fronte della volontà giovanile di aprire un negozio di alimentari al posto del precedente che aveva chiuso per pensionamento, non è stato possibile partecipare al recente bando regionale per i negozi di montagna. Dedicato solamente a partite iva consolidate. Questo non è mica giusto. Altra amenità: non si trova un ente che abbia il corso ( per trattamento alimenti) disponibile per disoccupati che vogliono prepararsi. Che fare? Grazie per suggerimenti….