La ricerca di Dislivelli sull’interscambio montagna-città pubblicata nel 2017  (vedi Dislivelli.eu n. 74 febbraio 2017) ha messo in luce la varietà e la quantità di scambi tra la montagna e la pianura urbanizzata della Città metropolitana di Torino. Tra questi spicca la quasi totale dipendenza della città dal suo retroterra montano per quanto riguarda la risorsa acqua, seguita da una forte dipendenza dovuta alla frequentazione turistica, escursionistica e alla villeggiatura. Invece la montagna dipende dalla città soprattutto per i posti di lavoro, per i servizi e per l’acquisto delle produzioni agro-pastorali. Insomma la dipendenza della città si deve a diversità ambientali, mentre quella della montagna deriva da diseguaglianze di tipo socio-economico. La ricerca auspicava la valorizzazione delle diversità e la riduzione delle diseguaglianze con  interventi sulle infrastrutture e sulla distribuzione geografica della popolazione, dei servizi e dell’occupazione.

Poiché troviamo situazioni analoghe attorno a tutti i massicci montani, il caso torinese può suggerire qualche riflessione di carattere generale, anche tenendo conto di quanto emerso dal convegno sulla nuova centralità della montagna, che la Società dei territorialisti e delle territorialiste ha organizzato l’8 e 9 novembre scorso a Camaldoli assieme a una quarantina di altri enti e associazioni, tra cui Dislivelli.
Partiamo dalla diversità della montagna. Sembra passato il tempo in cui essa veniva identificata soprattutto in negativo, come assenza di ciò che hanno di buono le pianure e le  città. Nel secolo scorso questa immagine si è realizzata nello spopolamento di una montagna ridotta a “margine” e nell’esodo verso un “centro”  rappresentato dalle aree urbano-metropolitane. Tuttavia negli ultimi anni – grazie anche al diffondersi di pratiche green, comunitarie e anti consumiste – la ricchezza del patrimonio ambientale, paesaggistico e storico-culturale della montagna ha cominciato ad essere vista  come un insieme di valori e di risorse capaci di generare una “centralità” diversa e in parte alternativa a quella della grande città. Questa nuova immagine ha fatto della montagna un magnete capace di attrarre nuovi abitanti e imprese, specialmente da città soggette a precarietà, disgregazione sociale e inquinamento atmosferico. Per ora si tratta di piccoli numeri, ma sufficienti a dimostrare che un progetto di vita e di lavoro alternativo a quelli offerti dai grandi agglomerati è possibile. Intendiamoci, alternativo non significa opposto, ma orientato verso una nuova urbanità, che non rinuncia ai vantaggi della civitas, ma, anche grazie al ridursi delle differenze culturali con la città, cerca di combinarli con quelli offerti dalla qualità dell’ambiente, da un’economia che soddisfa i bisogni fondamentali e da relazioni sociali solidali.

La centralità della montagna non è qualcosa di mai visto: ad esempio nel medioevo monasteri sorti non nelle città, ma nelle selve delle montagne sono stati centri di cultura, di innovazioni tecniche ed economiche, oltre che di potere. Prima che le ferrovie e le strade automobilistiche canalizzassero i flussi di persone e di beni lungo poche grandi vie di comunicazione, una rete capillare di percorsi permeava le terre alte come quelle basse, per cui in paesi che oggi consideriamo sperduti, come ad esempio Elva in val Maira, troviamo testimonianze importanti della grande arte europea, in altri si tenevano mercati specializzati di importanza regionale. Oggi cablaggi e tecnologie digitali potrebbero, almeno per quanto riguarda la comunicazione, tornarne a pareggiare la montagna con la pianura.
Ma ci sono le condizioni perché si realizzi un’effettiva rinascita della montagna marginalizzata? Al momento la risposta è più no che sì. La “nuova centralità” della montagna rimane un fatto culturale poco influente sulle politiche e le norme che dovrebbero renderla normalmente abitabile e produttiva. Gli ostacoli sono molti. Anzitutto gli odierni meccanismi elettorali non garantiscono un’effettiva rappresentanza della montagna negli organi decisionali di livello regionale e nazionale, cioè dove si approvano leggi che dovrebbero tener conto delle condizioni e delle esigenze specifiche di chi opera in montagna, dove si decide la ripartizione dei Fondi europei e così via. Inoltre, dopo l’abolizione delle Comunità montane e la loro parziale sostituzione con unioni di comuni, pensate solo in una logica di spending review, mancano istituti di autogoverno di livello sovra-comunale intermedio che permettano ai sistemi territoriali montani di attuare loro strategie di sviluppo e di stabilire accordi pattizi di reciproco riconoscimento e di mutuo appoggio con le vicine concentrazioni urbano-metropolitane.
Negli ultimi anni non sono mancate politiche come la Strategia per le aree interne, basate sulla valorizzazione delle risorse montane attraverso il potenziamento dei servizi e delle infrastrutture. Esse andrebbero però inserite in un più vasto progetto di interesse nazionale motivato, oltre che dal fatto che la montagna sotto popolata e sotto utilizzata occupa un quinto del territorio italiano, anche dalla misura in cui da essa dipende la vita  delle “aree forti” situate ai suoi piedi. Una montagna presidiata assicura l’approvvigionamento idrico e riduce i rischi di alluvioni che minacciano periodicamente città come Genova, Firenze, Salerno e molte altre ancora; dà un contributo non trascurabile all’occupazione e al reddito nazionale, al contenimento delle pressioni agglomerative, all’accoglienza dei migranti; favorisce la sperimentazione di nuovi stili di vita urbano-rurali, con effetti di ritorno sulla riqualificazione ambientale e sociale degli stessi agglomerati urbani.
Giuseppe Dematteis