Come in tutti i luoghi comuni, anche in questo c’è del vero. In Europa se vogliamo trovare un po’ di natura o andiamo in Lapponia o andiamo in montagna, ma dato che gli amanti della natura stanno in città e le città sono disposte attorno alle montagne, per noi la natura è la montagna. Prendiamo le Alpi: in un’ora o due riusciamo a passare dal massimo dell’artificiale al massimo del naturale a portata di mano. Scriveva Dino Buzzati (Grandezza e miseria dei viaggi, 1948): «La superstite porzione di fantasia, di avventura e di ignoto a noi praticamente disponibile è ridotta ormai entro limiti angusti; e la montagna ce ne offre l’ultima riserva». E se Salgari riusciva a immaginarsi la giungla sulle rive torinesi del Po, figuriamoci se i suoi concittadini hanno problemi a trovare la cosiddetta “natura incontaminata” in Val di Susa.
Insomma, abbagliati dall’artificiale in cui viviamo, quando entriamo nella penombra della montagna, come direbbe Hegel tutte le vacche ci sembrano nere, ovvero tutto ci sembra naturale. E questo è appunto un abbaglio, perché non solo i paesaggi, ma anche gli ecosistemi montani li hanno fabbricati un po’ alla volta generazioni di montanari. Il fatto che si siano serviti di ingredienti naturali ci fa sembrare naturale la montagna, anche se – almeno fino a una certa quota – non lo è più del parco del Valentino di Torino o di Villa Borghese a Roma.
Se non ci credete vi consiglio di visitare le zone interne delle Montagne Rocciose dell’Alberta, che non sono mai state colonizzate dagli umani. Lasciatevi alle spalle i suggestivi paesaggi dei laghi e provate ad avventurarvi su versanti boscosi dove manca ogni impronta umana. A parte la difficoltà di aprirsi un varco in una vegetazione veramente naturale e il timore di incontrare il grizzly, quello che più colpisce chi è abituato alle nostre montagne è l’uniformità del paesaggio. Non parliamo di terrazzamenti, di sentieri o di abitazioni, ma neppure ci sono le belle radure prative dei nostri maggesi. Solo a perdita d’occhio la terribile monotonia di boschi di conifere, rotte qua e là dai desolati terreni dove sono passati gli incendi. Al di sopra il rarefarsi della vegetazione non dà luogo a niente che somigli ai nostri bei pascoli. Solo quando arriviamo a macereti, rocce e ghiacciai ci sentiamo di nuovo a casa nostra, perché – nonostante strade, funivie, rifugi-alberghi, ferrate, croci e madonne – ci sono ancora anche nelle nostre montagne posti come questi, veramente (spit permettendo) naturali. Posti dove «chiunque ne senta veramente il bisogno interiore può ancora sperimentare un incontro diretto con i grandi spazi e viverne in libertà la solitudine, i silenzi, i ritmi, le dimensioni, le leggi naturali, i pericoli» (Wilderness, Tesi di Biella, 1987). Ma questi spazi fanno il 5% del nostro paesaggio montano, forse il 10%. Il resto è un impasto di storia e di natura non per questo meno affascinante e ricco di stimoli. Confonderlo con la natura vera e propria è un falso molto pericoloso, perché ci fa dimenticare che quella “natura” delle nostre montagne che tanto ci piace, essendo addomesticata, non si conserva e non si riproduce da sola. Ci vuole qualcuno che ci viva dentro e che se ne occupi.
Mentre continuamente si levano voci in difesa di questo o di quel monumento o paesaggio, la montagna non è vista come un’opera d’arte che per conservarsi va messa nelle condizioni di continuare ad essere abitata e utilizzata. Qualche cretino pensa addirittura che l’abbandono e lo spopolamento siano una buona occasione per farla tornare allo stato naturale. A parte il fatto che ci vorrebbero dei secoli prima che si raggiunga il bel risultato di far somigliare le Alpi alle Rocky Mountains, questi devoti di una natura immaginaria non si rendono conto di quanto ciò costerebbe (e in parte già costa) in termini di perdita di biodiversità, di valori culturali e paesaggistici. Che se proprio vogliamo parlare di natura, cominciamo a dire che per loro natura le Alpi e gli Appennini sono geologicamente giovani, perciò tendono continuamente a disfarsi e che senza le cure di chi abita le montagne, frane e alluvioni minacceranno sempre più ciò che sta a valle, comprese le città dove vivono i cantori della rinaturalizzazione.
Conclusione: proteggiamo quel poco di natura selvaggia che c’è, ma soprattutto aiutiamo quella addomesticata a sopravvivere a e riprodursi.
Beppe Dematteis
Sono completamente d’accordo con Dematteis. In vent’anni e passa non avevo ancora letta un’analisi così lucida della vera natura delle nostre montagne. Ho sempre affermato che la montagna piemontese è un ambiente che risente fortissimamente di millenni di antropizzazione ma spesso mi sono sentito molto solo su questa barricata. Grazie per l’articolo.