I nuovi processi migratori nelle “aree periferiche” e rurali europee, in rapporto alle dinamiche di sviluppo locale: questo il tema di un workshop internazionale, tenutosi il 2 e 3 maggio scorsi al Campus di Gorizia, organizzato dall’Università di Trieste (Igor Jelen) e dall’Università tedesca di Erlangen-Nürnberg (Stefan Kordel e Tobias Weidinger), con il sostegno del German Academic Exchange Service (grazie al quale hanno partecipato all’incontro anche diversi studenti di area germanica).
La sede dell’incontro non era casuale: Gorizia, città di confine tra i rilievi del Carso, fino a pochi decenni fa divisa e opposta rispetto alla slovena Nova Gorica da un reticolato in cui erano aperti solo pochi e controllatissimi varchi, per chi cercava di spostarsi tra i due versanti della cortina di ferro. Un confine finalmente ridotto a pura linea sulla carta, dopo l’adesione della Slovenia all’Unione Europea, ma che oggi rischia di tornare attuale, proprio in relazione al fenomeno della migrazione internazionale dal Sud del Mondo, come ci insegnano le recenti vicende della frontiera del Brennero (leggi la puntata precedente della rubrica che trattava tale argomento).
Il focus dell’incontro, che ha visto la partecipazione di alcune decine di studiosi da numerosi Paesi dell’Unione (Italia, Germania, Svezia, Gran Bretagna, Spagna, Grecia, Portogallo, Austria e Slovenia) era sulle due principali forme che assume oggi la migrazione (interna e internazionale) verso le aree rurali e montane in questi territori europei: da un lato quella per scelta e per vocazione (i cosiddetti amenity migrants o life-style migrants, ovvero quelli che noi di Dislivelli, parlando di Alpi e Appennini, chiamiamo “nuovi montanari” o “montanari per scelta”) e, dall’altro lato, quella mossa dalla necessità e dalla costrizione (i migranti economici e i rifugiati, e cioè quelli che noi chiamiamo “montanari per forza” e ai quali abbiamo dedicato lo speciale di Febbraio 2016 della nostra rivista).
Le relazioni dei partecipanti non erano tutte centrate sull’ambito montano, dato l’interesse del workshop per le migrazioni verso le aree rurali periferiche in senso lato (quelle che, in Italia, sono definite come “aree interne” dalla omonima Strategia Nazionale SNAI) ma le terre alte sono risultate essere un tema centrale, in quanto destinazione di primaria importanza per questi flussi di persone.
Con riferimento dunque alla montagna, tre sono state le principali tematiche oggetto delle ricerche presentate nel convegno. Una prima questione è quella demografica in senso ampio, che è stata affrontata comparando i diversi trend di neo-popolamento che vanno caratterizzando le Alpi occidentali (Francia e Italia) e quelle orientali (Italia e Austria, in particolare): laddove da tempo in alcune valli ad ovest si rileva una ripresa nei tassi di residenzialità, ad est ancora permangono ampie sacche di spopolamento in corso (soprattutto in Austria orientale e in Friuli Venezia-Giulia), sebbene si mostrino segnali di inversione di tendenza, quali, ad esempio, in alcune valli delle provincie di Belluno e di Udine, interessate dallo sviluppo dell’agricoltura biologica da parte di nuovi residenti. Ciononostante, si sono evidenziate diverse aree (la Stiria e alcune aree delle Giulie, ad esempio) che risultano poco o per nulla attrattive proprio per i life-style migrants, in quanto dotate di scarso appeal in termini ambientali (paesaggi culturali monotoni, eccessiva dominanza del bosco, retaggi del passato industriale e minerario non valorizzati).
Una seconda tematica affrontata è quella del peso della componente straniera nei processi di neo-popolamento, con una attenzione specifica ai “migranti economici”: tra gli aspetti considerati, è interessante l’analisi del possibile ruolo integrativo, rispetto all’accoglienza degli stranieri, che possono avere le antiche regole comunitarie, ancora in vigore in diverse località alpine (è il caso del Trentino, per esempio) e che possono favorire il conferimento di concreti diritti di cittadinanza agli immigrati (nella forma dei diritti di comunità), tramite l’accesso condiviso alle risorse del territorio e alla sua gestione. Anche la ridotta estensione e popolosità dei villaggi montani (nelle Alpi, così come sui Pirenei ma anche negli Appennini) è un fattore che è stato evidenziato come potenzialmente favorevole all’inclusione degli stranieri, per il permanere ancora una volta di una dimensione comunitaria, che porta a considerare la persona prima della sua appartenenza etnica o culturale.
Un terzo aspetto qui discusso, infine, è quello dell’abitare, con una analisi del ruolo che la disponibilità di alloggi in locazione a basso costo o sfitti/abbandonati, assai diffusi in molti paesi montani, può avere nell’attrarre gli stranieri dalle città alle terre alte, con un “effetto rimbalzo” dalle zone più urbanizzate (con costi della vita crescenti e possibilità lavorative decrescenti) a quelle rurali, laddove queste ultime siano comunque prossime alla pianura o alle valli più antropizzate e offrano possibilità lavorative (è il caso delle “professioni etniche”, che vanno sviluppandosi a partire dal settore primario: allevamento, taglio del bosco, estrazione mineraria, ecc.).
Un’ultima tematica discussa, nell’ambito delle presentazioni focalizzate sulla migrazione nelle terre alte europee, è stata quella dei rifugiati e dei richiedenti asilo, in quanto popolazioni presenti temporaneamente nelle zone montane e rurali, secondo modalità del tutto differenti da quelle caratteristiche dei “migranti economici” (che, per esempio, si dividono abbastanza equamente tra uomini e donne, mentre i richiedenti asilo sono in grandissima parte maschi). Si è evidenziato il crescente peso (politico-mediatico ma anche numerico) di questo fenomeno negli ultimissimi anni, proprio con riferimento alle aree rurali periferiche europee, che spesso sono state investite da flussi di migranti considerevoli, sulla base non di rado di politiche nazionali che hanno reindirizzato gli stranieri dalle città verso le zone meno popolose dell’interno. Se da un lato è stato messo in luce il rischio che questa presenza pesi eccessivamente su “aree fragili” come queste, dall’altro lato alcuni esempi del nord Europa hanno fatto emergere come una certa pressione migratoria straniera, se gestita e indirizzata correttamente, possa stimolare la resilienza di comunità locali spesso in crisi, proprio a causa di persistenti fenomeni di spopolamento, di abbandono del territorio e di chiusura difensiva da parte dei pochi autoctoni rimasti.
Il convegno si è concluso con l’invito ad approfondire, in una logica comparativa europea, il filone di ricerca sulle nuove migrazioni verso le aree rurali e montane, prestando particolare attenzione alle differenze, così come ai possibili punti di contatto, tra le due principali popolazioni interessate, ovvero quella dei migranti per scelta (in netta prevalenza europei occidentali, spesso di classe media e con risorse economiche a disposizione, oltre che culturali) e quella dei migranti per necessità (perlopiù extra europei o dell’Europa orientale, in gran parte con ridottissime o inesistenti risorse materiali ma non privi di importanti risorse culturali e professionali). Il futuro delle terre alte sembra giocarsi anche e in modo consistente nella dialettica (che potrà oscillare tra cooperazione e conflitto) tra queste due popolazioni di newcomers rurali/montani, laddove la distinzione tra abitanti fissi e temporanei sembra nel contempo perdere molta della sua valenza descrittiva, in una montagna che è sempre più spazio di flussi e luogo investito dalla globalizzazione.
Andrea Membretti