«Il Made in Italy sono anche i Macedoni che coltivano le vigne del Barolo, sono i Sikh indiani, con il turbante arancione, che mungono le mucche in Padania per produrre il simbolo dell’Italianità, il Parmigiano Reggiano, e i Magrebini che fanno la fontina in Valle d’Aosta».
Con questa affermazione, nel 2012 Carlo Petrini lanciò una delle sue proverbiali provocazioni per gettare luce su quali sono le vere mani che producono e trasformano il cibo quotidianamente consumato sulle nostre tavole. Per molti, scoprire che la manovalanza straniera – spesso vere e proprie maestranze – fosse così profondamente radicata all’interno di settori considerati tradizionali fu una rivelazione. Ma a livello mediatico il sasso lanciato nell’acqua non generò onde di inchieste o reportage, forse perché vini e formaggi di qualità non rappresentano un settore così vitale dell’economia italiana.
Tuttavia a livello di ricerca – in particolare sul tema della presenza di lavoratori immigrati nella filiera della caseificazione di montagna che interessa i lettori di questa rivista – il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) effettua inchieste annuali che rilevano il numero di operai stranieri nel settore agricolo per monitorare andamenti e flussi oltre che per individuare trend ed effettuare previsioni per gli anni successivi.

Siccome Petrini nella sua dichiarazione si riferiva esplicitamente alla Fontina, abbiamo deciso di contattare Stefano Trione, responsabile Inea per la Valle d’Aosta, che ha studiato per oltre 20 anni la composizione dei lavoratori nel comparto della zootecnia valdostana.
«Effettivamente – esordisce Trione con tono serio ma vivace – in Valle d’Aosta quasi il 75% percento dei lavoratori impiegati nell’allevamento di bestiame sono stranieri. E siccome la stragrande maggioranza di capi sono vacche da latte per la produzione della Fontina, possiamo tranquillamente affermare che il formaggio è prodotto soprattutto dalle mani degli immigrati. Relativamente all’anno 2014, sono stati impiegati 303 lavoratori extracomunitari (prevalentemente Marocchini) e 335 lavoratori comunitari (prevalentemente Romeni) oltre a un numero di irregolari stimato intorno alle 100 unità. Si tratta però di stagionali che salgono in valle per la monticazione estiva delle mucche, un lavoro che la manodopera locale ha abbandonato da molto tempo».
Il lavoro di Trione è soprattutto una passione che si nutre di calcoli per incrociare i dati comunali sull’occupazione dei residenti e le informazioni provenienti dall’Inps sulle nuove assunzioni insieme alla frequentazione di caseifici, cooperative e alpeggi e la conoscenza diretta di malgari e allevatori.
«Dei 300 alpeggi censiti dalla Regione Valle d’Aosta – prosegue con perizia Trione –, 200 tengono vacche da latte e quindi sono attrezzati per la mungitura. È questo che rende il lavoro degli operai di malga particolarmente prezioso e impegnativo al contempo: le mucche devono essere munte due volte al giorno, quasi sempre a mano, e il latte trasportato a valle se non caseificato in loco. Si capisce che non si tratta semplicemente di badare alle mandrie al pascolo. Difatti il conduttore della malga, che la gestisce solitamente con l’aiuto di un famigliare, ha bisogno di diversi lavoratori salariati, fidati ed efficienti, a cui affidare la cura delle sue bestie. Una mucca che non viene munta correttamente e va in mastite oppure una forma di Fontina d’alpeggio malriuscita rappresentano un danno economico rilevante. Infatti gli operai immigrati hanno sviluppato un notevole potere contrattuale che consente loro di strappare paghe da 8 – 10 mila Euro a stagione e il malgaro cerca di fidelizzare i lavoratori di anno in anno erogando anche ricchi fuoribusta per evitare che a metà stagione un buon pastore possa trasferirsi in un alpeggio vicino, attratto da condizioni economiche migliori. Bisogna pur sempre riconoscere però che si tratta di un lavoro estremamente duro, svolto in condizioni disagiate: la prima mungitura avviene alle 4 del mattino e se il 60% degli alpeggi è raggiunto da strade poderali carrozzabili, solo il 30% è dotato di energia elettrica».

Riguardo la provenienza delle persone che stagionalmente popolano e lavorano le montagne della Vallée, Trione ha seguito gli andamenti e le evoluzioni e ha potuto osservare da vicino i cambiamenti che negli ultimi anni hanno subito modificazioni interessanti.
«Già quando ho iniziato questo lavoro gli stranieri nel comparto zootecnico erano molto numerosi. Ma nel corso di 20 anni sono più che raddoppiati. Un tempo i lavoratori di malga provenivano quasi esclusivamente dal Marocco, ma nel corso degli ultimi anni sono stati in parte sostituiti da persone provenienti dalla Romania con cui i conduttori dichiarano una maggiore facilità di comunicazione. Sia nel caso dei Marocchini, sia in quello dei Romeni, si tratta di stagionali che in inverno tornano in patria presso le proprie fattorie a occuparsi delle proprie bestie. Tuttavia, recentemente alcuni di essi si fermano anche in inverno per essere impiegati nei caseifici di fondovalle. Il reclutamento avviene esclusivamente tramite passaparola sia tra i lavoratori, sia tra le aziende. I malgari fanno poi una gran parlare sulle capacità dei pastori Indiani e Pakistani per i quali la mucca è un animale sacro. Ma si tratta di una leggenda metropolitana perché il numero di lavoratori provenienti da quei paesi è davvero esiguo: qualche unità in tutta la Regione».
L’argomento forse più delicato e spinoso riguarda la presenza e il numero di lavoratori in nero. Come quantificarli, che tipo di impatto hanno sull’andamento degli alpeggi?
«Conoscendo bene le realtà e intervistando alcuni testimoni privilegiati sono riuscito a quantificare in circa 100 unità gli irregolari che hanno lavorato in alpeggio nel 2014. Il numero si ottiene anche grazie al fatto che è necessario un uomo ogni 25 vacche. È un dato davvero ridotto, quasi irrilevante, rispetto a quanto accade in altri comparti agricoli in giro per l’Italia e, soprattutto, è calato drasticamente nel corso degli anni perché sono aumentati i controlli».
Simone Bobbio