Filippo Barbera e Antonio De Rossi (a cura di), “Metromontagna. Un progetto per riabitare l’Italia”, Donzelli, 2021. 265 pp., 19 euro.

Come ci ricorda Beppe Dematteis: “Si può definire l’immaginazione geografica in tanti modi: come capacità di scoprire nuovi mondi; o di cogliere nel disordine della Terra certi segni e dare ad essi un senso; o ancora di connettere la dimensione sociale dei luoghi con quella storico-ecologica” (Geografia come immaginazione, Donzelli, 2021).
La tensione tra analisi dell’esistenze e immaginazione (progettuale) del futuro è sicuramente presente in uno dei concetti geografici più utilizzati nel dibattito recente sui processi territoriali delle montagne italiane: quello di metromontagna.
L’ultimo volume edito da Donzelli per la serie Riabitare l’Italia (“Metromontagna. Un progetto per riabitare l’Italia” a cura di Filippo Barbera e Antonio De Rossi) prova ad avanzare sulla definizione di quest’idea (che definiscono “radicale”), collegando il progetto implicito dell’immaginazione e della descrizione geografica alla progettualità esplicita della proposta politica. Il primo capitolo del volume “Per un progetto metromontano”, prova a esplorare  il concetto di metromontanità lungo alcune linee di confine, che vanno radicalmente ripensate, a partire da cinque ambiti: 1) la governance di territori che sono spesso gestiti in maniera separata, ma che hanno interdipendenze che necessitano di nuove architetture istituzionali; 2)  l’economia fondamentale, che costituisce l’infrastruttura sociale e materiale per la garanzia dei diritti di cittadinanza; 3) la materialità del territorio, che connette città e montagna nella complessa rete geomorfologica che costituisce la base dell’abitare metromontano; 4) la decostruzione degli immaginari urbani e montani e 5) la costruzione di un nuovo paradigma metromontano, simbolico e istituzionale, basato su nuovi “contratti spaziali”.
La parte centrale del volume, introdotta dalle fotografie di Michele D’Ottavio, approfondisce la questione metromontana offrendo diversi punti di vista e approfondimenti, a ognuno dei quali è dedicato un capitolo.
Beppe Dematteis e Federica Corrado tratteggiano le caratteristiche di una possibile geografia metromontana, intesa come “una descrizione ragionata di possibili relazioni virtuose tra centri metropolitani e territori montani” (p. 41), analizzando le relazioni metromontane esistenti nei casi del Torinese e del Cuneese ed evidenziando la necessità di nuovi strumenti di governance e nuove rappresentazioni per questi “sistemi territoriali da costruire”, fondati su una “montagna diversamente urbana”.
Nel capitolo successivo, Arturo Lanzani si fa portavoce di un nutrito gruppo di ricercatori e ricercatrici che hanno approfondito le caratteristiche e le potenzialità di questa “diversa urbanità” attraverso un viaggio in sei  territori pedemontani e delle medie e basse valli (Appennino modenese; Valli Nure e Trebbia; Piemonte sud-occidentale; città-paesaggio insubrica; Valbelluna; Pedemonte friulano) , concentrandosi su cinque questioni considerate fondamentali: le dinamiche residenziali, le dinamiche produttive, le trasformazioni del settore primario, il turismo e i servizi.
Proprio la territorializzazione dei servizi di welfare è al centro del capitolo di Loris Servillo e Mauro Fontana, che evidenziano la necessità di costruire un welfare metromontano, che riduca i divari territoriali, attraverso la complementarietà delle pratiche, la prevalenza della spazialità (e non della monetarizzazione) come logica di progettazione dei servizi e la costruzione di nuovi ambiti territoriali, che guardino al “mutual benefit” tra aree urbane e rurali, magari attraverso un ripensamento dei confini e del ruolo dei GAL.
Il tema dei confini è al centro delle riflessioni (da insider) di Sabrina Lucatelli e Giulia Valeria Sonzogno sulla Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), che probabilmente rappresenta l’unica politica che in tempi recenti ha messo seriamente in discussione i ritagli territoriali esistenti, attraverso la costruzione dal basso delle aree coinvolte nella SNAI, fondate soprattutto sul concetto molto interessante – e potenzialmente rivoluzionario – di “geografia dei legami”.
Giovanni Carrosio propone una lettura bioregionalista della metromontagna, esplorando le potenzialità dei territori metromontani come spazi di progettazione e di pratica della transizione ecologica, attraverso la valorizzazione delle interdipendenze tra città e terre (più o meno) alte in termini di scambio di materia e di servizi ecosistemici e la costruzione di economie territoriali su scala metromontana.
Riprendendo anche le ricerche di Dislivelli sui nuovi montanari e l’esperienza dello sportello “Vado a vivere in montagna”, Andrea Membretti si sofferma sulla complessità e la varietà delle popolazioni metromontane evidenziando come soprattutto i più giovani già pratichino forme di “metromontanità” nel proprio agire territoriale quotidiano.
Questa riflessione collettiva sul concetto di metromontagna si chiude con un contributo di Mauro Varotto, che parte dalle riflessioni del suo ultimo libro (Montagne di mezzo, Einaudi, 2020) per invocare la necessità di evitare che la costruzione di un immaginario metromontano replichi gli stereotipi esistenti riguardo alla città e alla montagna, aprendo piuttosto la strada a nuovi sguardi, che includano la varietà e la complessità dei territori e delle società.
Il volume si conclude con alcune conversazioni che i curatori hanno avuto negli ultimi mesi con quattro personaggi che giocano un ruolo centrale nel dibattito recente sulla (metro)montagna italiana, da diverse prospettive: Paolo Cognetti, Luca Mercalli, Marco Bussone e Fabrizio Barca.
Questo libro rappresenta un importante avanzamento teorico e politico sul concetto di metromontagna, intorno al quale approfondisce temi, punti di vista, progettualità reali e potenziali.
Un elemento su cui si potrebbero concentrare ulteriori riflessioni, riguarda il coinvolgimento, in questo processo di “inversione dello sguardo” nei rapporti città-montagna, non solo dei soggetti direttamente coinvolti (abitanti della montagna, attori istituzionali, “aspiranti montanari”), ma anche delle grandi masse di abitanti della città potenzialmente metromontane che non “vedono” le montagne, pur avendole davanti agli occhi ogni giorno, in fondo ai corsi e ai viali delle proprie città.
Perché la costruzione simbolica e materiale di territori metromontani avvenga realmente, per esempio attraverso il pagamento dei servizi ecosistemici e una seria ri-distribuzione territoriale del welfare che abbandoni l’insostenibile visione neoliberista fondata sulla redditività, è necessario un percorso che potremmo definire di “educazione alla democrazia territoriale”, che convinca la maggioranza dei cittadini non solo dei benefici reciproci di politiche metromontane, ma della loro necessità in termini di diritti di cittadinanza.
Giacomo Pettenati