Che cosa scriverebbero oggi, di tante imprese alpinistiche assai mediatiche, Vittorio Varale e Guido Tonella con la loro prosa quasi sempre asciutta – almeno per gli standard dell’epoca –, i giudizi netti, le argomentazioni sempre precise? Nomi sbiaditi ormai nella nebbia del tempo, un mix di giornalisti e frequentatori delle vette, attivo soprattutto negli anni Trenta, che andrebbe recuperato, letto, spesso preso ad esempio. Oggi, se qualcuno ancora li ricorda, lo fa per sottolineare la loro contiguità, vera o supposta, con il regime fascista. Punto.

Ma quanto si è modificata, da allora, la comunicazione della montagna? La domanda imporrebbe una riflessione su che cosa è oggi la comunicazione, tra quotidiani in crisi profonda e siti internet senz’anima, un discorso che porterebbe lontano, né ho voglia di farlo essendo, dopo quarant’anni quasi, uscito da una redazione a respirare. Però ci si potrebbe chiedere com’è cambiata negli ultimi decenni la maniera di fare giornalismo sui temi delle terre alte. La Rivista della Montagna nel 1970 e quindici anni dopo Alp sono piombati in un paesaggio asfittico come una valanga che tutto ha scompaginato. Il racconto ombelicale, cifra preferita di chi scriveva in precedenza di queste cose, è stato spazzato via a favore di un approccio nuovo, che mescolava conoscenza specifica e giornalismo, ricerca storica e capacità di critica. Quella pozione magica ha resistito e credo sia alla base della fortuna di tutta un’editoria specializzata che ha avuto lungamente fortuna e purtroppo rischia adesso di entrare in crisi. Non per sua colpa, non solo almeno. Il suicidio di Rivista della Montagna e Alp ha lasciato vastissimi terreni di pascolo che solo in parte sono stati occupati, ma quella miscela non si è più riusciti a ricrearla. Temo – magari però è solo il giudizio di chi sfoglia le vecchie annate con rimpianto – che i tempi non solo siano cambiati, ma che in molti casi siamo di nuovo passati all’ombelico, alla prosa compiaciuta, e talvolta zoppicante, di chi crede che la propria passione debba essere raccontata solo transitando da sé stessi.

L’editoria specializzata rimane però appunto quello: specializzata e dunque rivolta a un pubblico esigente ma ristretto. Altro è come la montagna oggi venga raccontata dalla stampa, soprattutto quotidiana. Che gli esempi gloriosi di cui prima – i due periodici nati e morti a Torino – abbiano avuto un riflesso importante sul giornalismo generalista è assodato. Anche perché in molti casi chi scriveva sui primi ha poi continuato pure sui quotidiani. Gli stessi dove si erano esercitati personaggi come Varale e Tonella – e Buzzati, ovviamente –, ma che nel tempo, salvo eccezioni lodevoli, non avevano neppure saputo decidere dove ospitare i temi della montagna, se nelle pagine di costume, di sport, di cronaca, preferibilmente nera, o tra i commenti. La montagna non è un genere, lo si è detto e ridetto a proposito del cinema, come della letteratura. È piuttosto il teatro, il palcoscenico. Ma è innegabile che si dipani un filo a legare generi diversi di una narrazione che ha una base comune. E che sia necessaria una preparazione specifica, a trattarne nel campo della comunicazione, non dissimile da quella richiesta per scrivere di calcio o di giudiziaria, di politica o di moda.

Ma è anche vero che il mondo della montagna, soprattutto negli ultimi anni, non si limita più solo agli incidenti – tema di solito prediletto dalla stampa – e alla glorificazione dei soliti noti. Il dibattito si è per fortuna dilatato, nelle redazioni ci si è resi conto che il ritorno lassù è un fenomeno reale, che gli ottomila sono diventati un circo, che l’intervento del soccorso alpino porta quasi sempre con sé domande cui occorrerebbe dare una risposta, che l’economia dello sci non può essere raccontata solo in termini di piste ben tenute e impianti che funzionano, che la pratica dell’alpinismo – e tanto più dell’alpinismo sociale – rischia di venir cancellata se non accetta di affrontare il dibattito giuridico. Che, ancora, la montagna non è solo paesaggi e rifugi (e già questi avrebbero bisogno di esperti capaci di scriverne in maniera ben più approfondita di ieri): mentre scrivo, tanto per fare un esempio, ascolto il tg che parla della mafia dei pascoli nel parco dei Nebrodi. E non può limitarsi alle pagine pur coraggiose di certi giornali locali la denuncia della ‘ndrangheta infiltrata nelle cave di porfido della Val di Cembra o gli intrecci ricorrenti tra politica e malaffare in Valle d’Aosta. Ma sono temi, questi, che invece raramente arrivano sui quotidiani nazionali.

C’è chi se ne occupa, sia chiaro, e lo fa in maniera ben più approfondita di un tempo, ma fatica a uscire dal dibattito locale. Limitandomi a episodi di cui sono stato diretto testimone, posso dire che il disastro della funivia Stresa-Alpino-Mottarone è arrivato ai lettori con una competenza che in altri casi, in passato, non c’è stata. Internet ha aiutato a scovare da subito gli esperti cui molti cronisti si sono affidati e con i quali hanno interloquito, per prima la presidente nazionale degli impiantisti, Valeria Ghezzi. E i miei ex colleghi hanno ipotizzato con ragionevole certezza le cause vere dell’incidente ben prima della magistratura che per settimane ha perso tempo su questioni di competenze.

La questione spinosa della Via Lattea è stata oggetto di un’inchiesta puntuale di Repubblica Torino, che ha portato alla luce magagne e complicità, tanto più coraggiosa in quanto la proprietà del quotidiano continua ad avere interessi pesanti nel comprensorio.

La collaborazione costante con i meteorologi – ormai necessaria in ogni redazione e al Tgr Piemonte addirittura ne hanno assunto uno, il bravissimo Andrea Vuolo – evita gli svarioni che spesso toccava leggere su fenomeni atmosferici e cambiamento climatico. Si può non essere d’accordo sui toni talvolta eccessivamente catastrofici, ma è innegabile che sul tempo e i suoi annessi oggi la stampa generalista abbia fatto enormi passi avanti.

La comunicazione non è fatta però solo di chi scrive sui giornali. L’intermediazione tra il mondo dell’alpinismo, soprattutto quello di punta, e i cronisti non è più una questione di rapporti diretti e talvolta fiduciari. Ci si dimentica spesso che una buona parte del successo di Walter Bonatti è derivata anche dalla relazione stretta con un giovane Emilio Fede in una tv che muoveva allora i primi passi in Italia.

Nell’ultimo decennio hanno invece fatto irruzione prima gli uffici stampa, poi gli agenti – nel calcio si direbbero procuratori – per mediare con i giornalisti, gli editori e ovviamente con televisione e rete. Il risultato non è stato dei migliori e se la montagna in generale si può dire che oggi viene raccontata in modo decisamente più maturo, non altrettanto è per i suoi protagonisti di punta. Gli agenti non aiutano la comprensione, il loro compito è quello di “vendere” un prodotto e lo fanno egregiamente. Ma se il prodotto capita nelle mani di giornalisti che poco ne capiscono, e poco vengono aiutati a capirne, l’effetto è disastroso. Ecco, da questo punto di vista la comunicazione della montagna ha fatto passi da gigante… all’indietro. E la colpa, per una volta, non è dei cronisti.

Leonardo Bizzaro