Nel proporre per “Dislivelli” una serie di domande al professor Marco Vitale, economista d’impresa che ha condotto corsi innovativi sui valori imprenditoriali all’Università di Pavia, alla Bocconi di Milano, all’Istao (Istituto Adriano Olivetti) di Ancona e alla Libera Università Carlo Cattaneo di Castellanza (Va) e che è stato, tra i vari incarichi, presidente delle Ferrovie Nord e assessore al Comune di Milano, era giocoforza sondare ancora una volta la sua vocazione alpinistica che il professore considera «utile e arricchente per la propria professione o mestiere, qualunque esso sia». E infatti nelle risposte che cortesemente ci sono state concesse in un ininterrotto fluire di idee qui ricondotto alla dimensione di un’intervista, è al primo posto il rapporto di Vitale con la montagna e l’alpinismo: un rapporto certamente non usuale per un economista e un manager. Il professor Vitale dipana altri tre importanti temi: declino e sviluppo delle Alpi, possibili alleati per una loro rinascita, esempi positivi tra i quali non manca di citare con interesse il progetto delle “Sweet Mountains” caldeggiato da Dislivelli.

Appassionato alpinista, sciatore e viaggiatore, lei è stato sulle montagne dell’Alaska (McKinley), della Cordillera Real in Bolivia (Ancohuma – Illampu), della Cina (Minya Konga, nelle Alpi del Sichuan), del Karakorum e delle Ande Argentine. Come va inquadrata questa sua grande passione?
Io non sarei quello che sono senza lo sport, che è parte integrante della mia vita. Essere sportivi è un modo di intendere la vita. Nel mio caso lo sport, lo studio, le esperienze professionali, si sono mossi insieme, uniti, fusi tra loro. La mia origine sportiva è nei due grandi sport popolari italiani: il calcio e il ciclismo. Innanzitutto il calcio dove ho imparato moltissimo. Quando insegnavo in Bocconi, per spiegare il concetto di anticipo parlavo di calcio, perché senza l’anticipo il calcio non c’è. Il ciclismo, invece, mi ha accompagnato fino agli anni Ottanta. Alcune delle idee migliori di natura professionale mi sono venute quando percorrevo i 100 chilometri dall’Alzaia Naviglio Grande fino al ponte di Oleggio e ritorno, che per tanti anni ho fatto più volte alla settimana, ed era il mio percorso di allenamento.
Ricorda chi la indusse per primo ad andare in montagna?
L’interesse fu stimolato al liceo dal mio professore di filosofia: giovane, intelligentissimo, affascinante, aveva fatto la Resistenza sulle montagne della Valcamonica. Un giorno mi chiese se frequentavo la montagna. Al mio diniego fu sorpreso e mi disse: ma un giovane, curioso come lei di natura e di storia, non può non conoscere e frequentare la montagna. Fu questo lo stimolo che mi portò a scoprire la montagna, ma in un’ottica che non era più solo sportiva. Era un legame nuovo e diverso con la natura e con la storia dell’uomo.
Ha osservato in un suo scritto che le Alpi italiane soffrono da anni di un costante declino economico, demografico e politico. Si può ancora sperare in un’inversione di tendenza?
Il tema va inquadrato nella grande trasformazione in corso che, impropriamente, continuiamo a chiamare crisi. Questa trasformazione sta cambiando quasi tutto e il problema è capire le nuove coordinate, la nuova direzione di marcia, il proprio posto nel nuovo mondo. Poi, una volta capita la direzione, bisogna sviluppare un’azione basata su una grande carica di innovazione culturale e sociale. Le Alpi occupano una parte centrale in Europa e quindi numerose località di primo livello hanno buone carte da giocare sul piano del nuovo grande turismo ricco, che sarà sempre più di origine orientale, compresa l’India. Ma la concorrenza è severa soprattutto con Austria e Svizzera.
Quali carenze ravvisa, in particolare, nelle politiche per la montagna?
Sono impressionanti le differenze che, tra realtà e percezione, emergono dagli studi seri di marketing turistico, dove la parola magica è: segmentazione. Una recente ricerca Eurisko commissionata da Expo 2015, che mi ha molto colpito, aveva per oggetto quale fosse la percezione, nel campione intervistato, delle migliori regioni italiane sotto un profilo turistico. Al primo posto risultava la Sicilia. Poiché so che, invece, i dati turistici della Sicilia sono cattivi, molto inferiori a quelli della Lombardia e del Veneto, chiesi spiegazione di questa discrasia al direttore della ricerca. Questi mi rispose: è la differenza tra la realtà e la percezione della realtà. In fondo, nell’esito di quella ricerca si poteva anche leggere un indiretto messaggio di rimprovero che diceva: la Sicilia avrebbe tutto (natura, storia, beni culturali, enogastronomia, mare e monti) per essere la regione turisticamente più dotata se non ci fosse una politica turistica della Regione che, ormai da cinquant’anni, è disastrosa.
Quali fattori potrebbero determinare un auspicabile sviluppo delle Alpi?
Un potenziale di sviluppo potrebbe derivare da una serie di fattori coincidenti: centralità europea; rivalutazione di stili di vita che, grazie all’impoverimento generale, riprendono valore e significato; diminuita incisività della rendita immobiliare; crescente bisogno di contatto con la natura; aumento della popolazione interessata allo sport attivo; superamento dell’isolamento grazie alle tecnologie digitali. Ma queste potenzialità si realizzeranno solo se le comunità alpine sapranno essere se stesse, riscopriranno le loro identità, le loro migliori tradizioni, sapranno lavorare in modo altamente professionale per una società e un’economia articolata, globale e sostenibile, se sapranno valorizzare i loro più autentici tesori (dal paesaggio, alle acque, alle foreste, alla genuinità dei prodotti alimentari, ai canti di montagna) e sapranno riscattarsi dalla schiavitù del turismo, dalla rendita immobiliare, dall’imitazione servile delle città. In questa corretta direzione mi sembra che si muova il progetto “Sweet Mountains”, ma anche analoghi movimenti locali che vedo sorgere qua e là nella stessa direzione.
Può indicarci i principali alleati di questo ipotetico sviluppo?
Non c’è da farsi illusioni. Di alleati istituzionali ce ne sono pochi. L’unico alleato serio è la crisi stessa. Non è alleato il governo e la politica in generale che dimostrano un disinteresse totale non solo verso le Alpi ma verso tutto il nostro patrimonio paesaggistico e culturale tutelato dall’art. 9 della Costituzione e verso il turismo in generale che, sulla carta, dovrebbe essere la nostra maggiore industria e che, invece, vale uno scarso 10% del PIL e dove, implacabilmente, continuiamo a perdere posizioni. È assai eloquente il disinteresse verso la Convenzione delle Alpi, nonostante l’esemplare impegno pluriennale profuso dal segretario generale italiano Marco Onida che da poco ha lasciato l’incarico, e verso la Conferenza delle Alpi svoltasi di recente a Torino, con la fuggevole apparizione del ministro dell’Ambiente.
In quale città le sembra che sia più sentito il legame con le Alpi?
Mi sembra che a Torino il legame con le Alpi sia più sentito che a Milano. Ma ciò non è un gran merito. La componente pubblica di Milano è assente su tutti i temi che contano. Riporrei poche speranze anche sull’Expo che parte senz’anima ed è un episodio ‘una tantum’ il cui unico lascito saranno tanti veleni. Mi sembra che anche i grandi enti dedicati, come Cai e Touring, siano conservatori mummificati e mostrino una capacità di innovazione sociale e culturale prossima allo zero, ignorando i grandi processi di trasformazione in atto.
A chi tocca dunque trovare soluzioni?
Sono i cittadini delle comunità alpine, in sintonia con tutti quelli che amano la montagna e riconoscono l’importanza straordinaria delle Alpi, come centro e crocevia d’Europa, che debbono trovare, da soli, le nuove direzioni di marcia, dando prova di un nuovo spirito imprenditoriale, di visione e capacità programmatoria, di consapevolezza della propria centralità. Ma su alcuni temi bisogna anche saper avanzare precise e fondate rivendicazioni. Ciò vale soprattutto per gli impegni di manutenzione del territorio che gravano in gran parte sulle popolazioni di montagna e che devono trovare equa compensazione economica, con contributi e sgravi fiscali.
Può farci, per concludere, qualche recente esempio positivo di promozione della montagna e delle connesse attività economiche?
Quasi tutti gli esempi che mi vengono alla mente sono austriaci. Ma ve ne sono due italiani che meritano menzione. Il primo è la creazione e l’azione del Distretto Culturale della Valcamonica (Bs) che, valorizzando gli ingenti beni culturali della Valle, ha contribuito a rinnovare un senso di comunanza e a valorizzare la mezza montagna della Valle, anche con i suoi notevoli prodotti gastronomici.
E il secondo esempio?
Il secondo esempio è il recente annuncio che la giuria internazionale di Wikipedia (la nota enciclopedia online collaborativa multilingua e gratuita nata nel 2001) ha scelto Esino come località in cui tenere il raduno mondiale del 2016. Esino è un piccolo paese di montagna di 700 abitanti, isolato nella sua conca ai piedi della Grigna. L’assegnazione a Esino dell’ambito riconoscimento viene al termine di una dura selezione con concorrenti molti agguerriti e titolati, battendo, in finale, Manila. È il dodicesimo raduno mondiale di Wikipedia questo, ed il primo assegnato all’Italia. Questa sfida vinta dal piccolo paese della Grigna diventa simbolo del riscatto delle piccole realtà di montagna che nell’era digitale possono sognare in grande e diventare protagoniste del mondo.
Roberto Serafin

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