Le diversità degli ambienti e delle produzioni del territorio alpino rappresentano un patrimonio unico. Il mantenimento delle attività agro-pastorali diventa perciò fondamentale al fine di conservare la straordinaria ricchezza delle numerose vallate, tutelando nello stesso tempo le produzioni locali (come i formaggi d’alpeggio) e difendendo il paesaggio alpestre. Tra queste attività produttive sono proprio quelle orientate alle produzioni casearie, più legate e motivate da tradizioni secolari, le ideali forme per custodire in modo efficiente e sapiente (oggi diremmo “sostenibile”) le preziose risorse degli alpeggi. Si tratta di un “sistema complesso” che viene definito da Wikipedia come “l’attività agro-zootecnica che si svolge in montagna durante i mesi estivi. Con il termine malga (N.d.A.: da usarsi solo per le Alpi centrali e orientali) si fa riferimento all’insieme dei fattori produttivi fissi e mobili in cui avviene l’attività di monticazione (una fase della transumanza): terreni, fabbricati, attrezzature, animali, lavorazione del latte prodotto”. Il riferimento è, con evidenza, sempre quello “lattiero-caseario”, nell’ultimo mezzo secolo ampiamente interessato da una profonda crisi. Si tratta di sistemi agro-pastorali “autosufficienti” che virtuosamente e, potremmo aggiungere, “valorosamente”, producono ancora oggi per la stagione di stabulazione “scorte” proprie, i preziosi fieni di fondovalle (indiscutibili le ricadute benefiche sul paesaggio grazie al mantenimento e alla cura dei prati) mentre d’estate ricorrono all’erba di pascolo allevando animali appartenenti a razze locali, particolarmente adatte al territorio (con ricadute positive sulla biodiversità animale).
Negli ultimi decenni in alpeggio si sono invece imposti, da un lato modelli semi-intensivi con razze “cosmopolite” (vacche da latte specializzate, sistemi meno presenti nelle Alpi occidentali) che, pur consentendo un aumento delle produzioni a scapito di una certa “qualità”, hanno generato problemi ambientali, abbandono di ambienti più marginali, perdita di biodiversità, mentre, dall’altro, si è vista la formazione di grandi mandrie “da carne”, con soggetti provenienti da diversi proprietari, gestite secondo la cosiddetta “linea vacca-vitello” (sistema orientato alla produzione di vitelli tenuti in allattamento naturale per tutta la stagione di alpeggio). In aree più marginali possono essere considerati di un certo interesse quei sistemi, in fase di studio anche in Piemonte, frequenti oggi anche in Svizzera e comunque inediti per le nostre Alpi, con mandrie di bovini, orientati alla produzione di “carne all’erba”. La Sau (Superficie agricola utilizzata) totale piemontese comprende oggi oltre un milione di ettari; di questi si contano, tra prati permanenti e pascoli 371.350 ettari (in montagna 187.307 ha e in collina 92.306 ha). Vi “monticano” 96.000 bovini e 102.000 ovicaprini. La quota di soggetti da latte è attualmente molto bassa rispetto al totale e prevalgono le già ricordate mandrie da carne; tra queste troviamo anche la bovina Piemontese, razza che in passato produceva il latte alla base delle più celebrate produzioni casearie, attuali Dop (Castelmagno, Raschera, Bra, Toma). Sono oltre mille gli alpeggi ancora attivi in Piemonte, ma nella maggior parte dei casi questi modelli non sembrano più in grado di reggere una competitività basata, di fatto, solo sulla capacità di ridurre i costi di produzione. Occorre anche ricordare che difendere gli alpeggi oggi impone di combattere le gravi forme di speculazione, sempre più aggressive e nefande, che distruggono produzioni uniche e deteriorano la funzionalità delle superfici pastorali di quota. E’ perciò fondamentale che il settore debba spostare l’ambito competitivo sulla peculiarità del prodotto (la qualità nutrizionale e nutraceutica) e del processo produttivo (fondamentale il ruolo eco-sistemico), sulla diversificazione e sulla capacità evocativa dei valori ambientali, storici e culturali del territorio. Recentemente anche il progetto ProPast (finanziato dalla Regione Piemonte, 2011-2013) ha messo in piena luce le criticità di questi sistemi: le insostenibili problematiche di acquisizione delle superfici d’alpeggio (aumento degli affitti, diminuzione di alpeggi disponibili, difficoltà nel realizzare regolari contratto privati per l’eccessiva frammentazione fondiaria, speculazioni, ecc.), la carenza di adeguate infrastrutture, la relativa mancanza di vie di accesso, l’eccesso di burocrazia. Non si può a questo proposito non richiamare le pratiche igienico-sanitarie che seppur “sacrosante” quando basilari, non di rado, per complessità normativa, sono di difficile attuabilità. A questo si aggiunga la mancanza di valorizzazione di molti prodotti, l’aumento dei costi di gestione aziendali, la scarsa attenzione nei confronti di questo ambito produttivo in generale, la mancanza di manodopera affidabile e sufficientemente formata, e le recenti problematiche di notevole impatto in termini antropologici, sociologici, tecnici ed economici come la predazione. Eppure i numerosi vincoli odierni per allevare e produrre in montagna, spesso “subiti” da “giovani” e famiglie “di ritorno”, dovrebbero allentarsi a fronte del vantaggio multifunzionale che assicurano queste produzioni. Il cittadino-consumatore è oggi alla ricerca di prodotti “identificabili” e pare sempre più attento alle questioni di sicurezza alimentare, ambientali e di benessere animale.
Dopo quasi cinquant’anni di sostanziale disinteresse si sta iniziando a prendere coscienza delle relazioni che i sistemi di allevamento di questi territori hanno con gli ecosistemi di cui fanno parte. Ciò dovrà richiamare in modo più evidente l’attenzione di governi nazionali, organizzazioni sovranazionali e, istituzioni culturali sulla necessità di affrontare lo sviluppo agricolo di montagna anche in termini di sostenibilità complessiva. In termini generali, se è vero che in prospettiva, la produzione di alimenti dovrà necessariamente essere in grado di conciliare salubrità e tecniche a tutela dell’ambiente, per soddisfare le crescenti esigenze umane, sarà nel contempo necessario rispettare le componenti di sostenibilità sociale ed economica, affrontando anche numerose questioni di ordine etico. E l’alpeggio resterà sempre un esempio virtuoso e paradigmatico per difendere la montagna.
Luca Battaglini