“La malattia viene quando la gente si allontana dalla natura. La gravità della malattia è direttamente proporzionale al grado di separazione. Se una persona malata ritorna ad un ambiente sano spesso la malattia scompare.”
Masanobu Fukuoka
Quanta verità c’è nel pensiero del filosofo botanico giapponese Masanobu Fukuoka? Quanto eravamo consapevoli del rischio di una pandemia e quanto preparati ad affrontare il virus Sars-Cov-2? Non lo eravamo affatto. Eppure personaggi come Steven Soderbergh, regista dello spettacolare film “Contagion” del 2011, e David Quammen, divulgatore scientifico, con il libro “Spillover” del 2014, per citarne solo alcuni, già in tempi non sospetti ci hanno narrato con dovizia di particolari quanto sta accadendo oggi. Profeti? No, semplicemente accorti osservatori dei risultati che gli esperti stavano registrando con i loro studi. Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, non si stanca di ripetere che abbiamo avuto parecchie avvisaglie, dalla Sars a Ebola fino alla pandemia influenzale “suina” del 2009, la H1N1, quest’ultima forse la più vicina a quello che stiamo osservando oggi. Con lei tutta la comunità epidemiologica da dieci o quindici anni a questa parte ci ha ripetuto che la questione non era se avremmo avuto una pandemia come questa. Era semplicemente quando. Tutti colti di sorpresa, anche la sottoscritta: dopo aver confinato ai vaghi ricordi dell’università i testi di microbiologia, nella mia quotidianità di ambientalista mi sono scordata di questo pezzo di mondo. Come se i virus, i batteri, i prioni, i protozoi e molti altri parassiti non fossero parte di quella biodiversità che costituisce l’universo dei viventi. Negli ecosistemi questi parassiti vivono in equilibrio naturale, tanto che nella maggior parte dei casi sono parassiti benevoli degli animali superiori, e solo sporadicamente uccidono. Ma se bruscamente sradicati dal loro ambiente per essere confinati nelle città, dove tutto è artificiale e niente è in armonia con la natura, l’equilibrio si rompe e si diffondono senza che noi ce ne accorgiamo. Forti dello sviluppo tecnologico-industriale raggiunto, non solo abbiamo creduto di domare l’ambiente naturale, ma addirittura ci siamo sentiti “fuori” da esso. Ci siamo scordato che le pandemie sono fenomeni naturali, accaduti più volte nel passato, così come ci siamo scordati che gran parte delle influenze che ci colpiscono sono delle zoonosi, cioè malattie trasmesse dagli animali all’uomo o viceversa. E’ dovuto arrivare il Sars-Cov-2 con la sua trasmigrazione dall’habitat silvestre, per rammentarci del fatto che siamo tutti abitanti dello stesso pianeta, nonché animali tra gli altri.
È questo il “Cigno nero” che scuoterà il sistema tanto da cambiarlo radicalmente? Probabilmente no. Già da settimane c’è chi si agita per superare questa tragedia ritenendola niente più che un tragico errore del destino, da cancellare al più presto per riprendere la crescita economica senza lacci e laccioli e più velocemente di prima. C’è addirittura chi sostiene che per salvare l’economia si debba cancellare il Green New Deal e con esso i vincoli imposti da quel poco di tutela ambientale che abbiamo conquistato. E’ vero che occorre semplificare: troppa lentezza e troppa burocrazia inutile hanno ingessato progetti e azioni, anche laddove si voleva operare con i migliori auspici. Ma non sarà la crescita tout court che risolverà i nostri problemi. “No volveremos a la normalidad porque la normalidad era el problema”, è il messaggio lanciato sui grattacieli di Santiago del Cile dal collettivo di artisti audio visuali Delight Lab. In questo periodo in molti ci siamo ritrovati a pensare che quel che fino a due mesi fa consideravamo normalità era poco più che un artificio della nostra mente. Oggi comunque non è così insensato mettere in discussione quella normalità, anche solo evitare di farci trovare ancora più fragili di fronte al prossimo shock sanitario o climatico. Tutto quello che una certa normalità respingeva, dalla tutela degli ecosistemi e della biodiversità, al cambiamento di abitudini e stili di vita, alla riduzione dei consumi e dei troppi spostamenti (soprattutto quelli in aereo), alla salute per tutti, fino al rifiuto delle disuguaglianze, oggi ha bisogno di essere riaffermato con più forza. Una fisicità degli eventi e dei fenomeni quella della pandemia Covid-19 che ha assonanze con i cambiamenti climatici. Senza incorrere in derive neopositivistiche possiamo affermare che, come per i cambiamenti climatici, anche in questo caso dobbiamo scegliere se fidarci dei dati scientifici e degli esperti o di teorie stravaganti. Secondo il Club di Roma “Possiamo fare molto meglio. Invece di reagire semplicemente alle catastrofi possiamo usare la scienza per progettare economie che mitighino le minacce del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e delle pandemie. Dobbiamo iniziare a investire in ciò che conta, gettando le basi per un’economia verde e circolare, ancorata a soluzioni basate sulla natura e orientata al bene pubblico”.
E la montagna in tutto ciò come ci entra? Intanto fa riflettere la fuga dalle città alla ricerca di un rifugio, come se nella montagna ci fosse uno spazio salvifico. Un off limit al virus, sebbene nelle seconde case di Bardonecchia o di Courmayeur non si possa riprodurre niente di più che la medesima vita di città. Al netto poi di tutte le problematiche dovute ad un dimensionamento dei servizi, compresi quelli sanitari, programmati per sostenere il ferragosto, la settimana bianca e poco più. Se in città la difficoltà a mettere in campo misure di adattamento è stata enorme a causa dell’impreparazione del sistema sanitario, nei comuni montani è pure peggio, anche in conseguenza della pesante mannaia calata sui servizi territoriali sanitari e assistenziali, con la scusa della razionalizzazione. Tuttavia, di là da questo spiacevole fenomeno, da governare meglio per il futuro, vale la pena di interrogarci su quale ruolo potrebbe assumere la montagna nella dimensione sociale, economica e ambientale che si va configurando con il post coronavirus. Due gli ambiti di ragionamento: il primo contingente, di adattamento tempestivo alle pandemie, da reinventare qui più che altrove a causa dei tagli ai servizi e che si deve tradurre in un potenziamento complessivo di azioni di prevenzione e contenimento delle infezioni. L’altro, di più lunga gittata, che da visionari quali siamo si vorrebbe tradotto in un master plan per una nuova società. Non sarà un Paese come l’Italia a risolvere problemi di carattere planetario, in cui l’incredibile velocità di diffusione dei virus – figlia dello smodato traffico aereo – ha amplificato e radicalizzano i danni provocati dall’enorme quantità di territorio forestato distrutto e invaso dalle megalopoli. Ciò nondimeno nel rappresentare il futuro prossimo ci si può interrogare sulle responsabilità che possiamo e dobbiamo assumere come Paese a partire dal ruolo che possono avere le aree extra-metropolitane. Se, come sostengono gli esperti, la nostra salute dipende per il 20% dalla predisposizione genetica e all’80% dai fattori ambientali, allora la via di uscita va cercata in un ritorno, o meglio, in una nuova conquista di “un’economia naturale” con un forte protagonismo dei territori. Una prospettiva dove si vorrebbe il territorio extra-metropolitano, finalmente in grado di costruire sane e forti sinergie con le metropoli. In un percorso condiviso, che metta al centro salute e benessere, attraverso la ricerca di un equilibrio tra uomo e natura. La conservazione del Capitale Naturale non può essere confinata a optional per le società opulente e senza problemi. Al contrario oggi, in tutto il pianeta, abbiamo un gran bisogno di servizi ecosistemici che ci forniscano insieme ad acqua, aria e cibo sani anche la possibilità di ridurre le epidemie. Una maggiore attenzione agli equilibri naturali insieme ad un atteggiamento di cura degli ecosistemi hanno l’effetto di ridurre il rischio di fenomeni imprevedibili che possono mettere a repentaglio la nostra società, e questo vale in qualunque caso: dal dissesto idrologico alle malattie contagiose. Il variegato paesaggio delle aree interne italiane, dalle foreste ai pascoli ai terreni coltivati, essendo il risultato di millenarie interazioni con l’ambiente, ben si presta ad una attività di rinnovata ricerca di equilibrio uomo/ambiente: dal punto di vista ecologico come dal punto di vista sanitario. Il modello sanitario One Health, riconosciuto ufficialmente dal Ministero della Salute italiano, dalla Commissione Europea e da tutte le organizzazioni internazionali, è un buon paradigma per contemperare la domanda di salute con quella di qualità ambientale. Esso si basa sul riconoscimento che la salute umana, la salute animale e la salute dell’ecosistema sono legate indissolubilmente. Un modello metodologico come questo, che prevede una ricerca di integrazione uomo/animale/ambiente, è quanto occorre per i nostri territori, risultato essi stessi di lunghe sperimentazioni del rapporto uomo/natura. Basti pensare al virus del morbillo, che deriva dal virus della peste bovina, il quale si è avvicinato all’uomo quando l’Homo sapiens ha addomesticato il bovino, ma che fortunatamente è stato sconfitto dalla ricerca medica. Un’agricoltura rigenerativa e non invasiva come quella che in questi anni abbiamo sostenuto per le nostre montagne potrebbe fornire cibo senza il bisogno di distruggere i mezzi con il quale si produce. Inoltre, come sostengono tra i tanti i ricercatori del settore agroindustriale (Cappelli et al., 2020), in questa crisi le produzioni locali e le filiere corte possono rappresentare una potenziale àncora di salvezza per tutti i paesi del mondo a prescindere dal precedente livello di globalizzazione. In tal senso sarà prioritario il rilancio dell’agro-zootecnia in montagna puntando sul trinomio cibo-salute-qualità, anche per dare un maggiore valore aggiunto e un ruolo centrale nell’alimentazione alle produzioni montane. I sistemi alimentari locali, territoriali e basati su mercati interni e locali, su gruppi di acquisto e mercati del biologico, poiché più resilienti, possono diventare fondamentali per raggiungere la sicurezza alimentare per la popolazione. Il turismo dolce, fortemente correlato alle produzioni locali, sviluppatosi in questi decenni nelle montagne italiane, potrebbe avere nuove chances in un periodo dove i divieti di viaggiare sommati alle accresciute paure dei cittadini rendono molto più attrattivo quel turismo di prossimità. Un turismo per tutte le età che permette di fare esperienze di contatto con bellezza della nostra natura e con la ricchezza delle comunità locali e dei prodotti tipici. In questo tipo di accoglienza c’è spazio per progetti in cui l’utilizzo delle risorse naturali possa essere pianificato contemporaneamente a fini sanitari e turistici. Il progetto Interreg Spazio Alpino “Healps2” costituisce un buon esempio di come lo spazio alpino possa proporsi in quanto luogo attraente con effetti benefici sulla salute a livello globale.
C’è poi un problema di spazi urbani collettivi e privati da ripensare. Ora che abbiamo scoperto che vivere ammassati è poco salutare, occorre capire quale ruolo si possono ritagliare le aree interne, da sempre abituate ad una più moderata densità di utilizzo degli spazi collettivi e privati. Se è impensabile e nemmeno così desiderabile una radicale inversione di tendenza di crescita della popolazione urbana, non è però così inadeguato ipotizzare che alcuni servizi e funzioni possano essere distribuiti su un territorio più ampio valorizzando così il rapporto città/hinterland. Anche il bisogno di uno spazio casalingo adeguato e accogliente, rivelatosi fondamentale con il lockdown, può trovare soddisfazione nel riabitare le aree interne. Le problematiche vincolate all’accessibilità da e per questi luoghi hanno però una svolta inimmaginabile fino a due mesi fa. Al netto dei problemi del trasporto pubblico locale e della mancanza di qualche infrastruttura, la mutazione epocale verso il digitale dovuta al lockdown ha costruito orizzonti nuovi: prima nessuno avrebbe mai immaginato che tutti, anche i più anziani e i più restii, avrebbero usato i sistemi digitali per il lavoro da casa, l’e-commerce, l’e-learning, le relazioni familiari e altro ancora. Un’eredità quella del Coronavirus che, se accompagnata dai necessari interventi a supporto della banda ultralarga e della rete telefonica e televisiva, può migliorare radicalmente le vite di coloro che hanno scelto o vorranno scegliere di abitare e lavorare nelle aree interne.
Non possiamo nasconderci che il quadro post-Coronavirus è molto preoccupante, ma come per tutte le importanti epoche di transizione anche in questo caso si andranno a configurare nuovi equilibri e con essi nuove potenzialità. Allora sarà interessante e utile capire come la centralità della montagna, che in molti abbiamo sostenuto in questo anni, possa essere riaffermata con ancora più forza. Una centralità da declinare in quanto spazio di tenuta e sperimentazione non più e non solo per i cambiamenti climatico e socio-economico, ma anche per la mitigazione e l’adattamento alle prossime pandemie che saremo costretti ad affrontare e a gestire.
Vanda Bonardo
si. ci si concentra sulla prevenzione d’emergenza, l’igiene, ma sarà poi necessario ricordare le cause indicate da più virologi. I.Capua “Ho paura che l’attenzione sul Coronavirus ci stia polarizzando su un tema solo tra tanti e che ci faccia abbassare la guardia su altre malattie che già esistevano e che non possiamo trascurare». ha ricordato quanto sia fondamentale occuparsi anche del problema della Peste suina africana. «Una malattia – spiega l’esperta – molto diffusa tra i cinghiali ma che minaccia anche gli allevamenti di suini domestici». grazie per l’articolo.