Preso dall’entusiasmo, qualcuno potrebbe già immaginare lo scatenarsi di una redditizia corsa dei nuovi montanari all’oro rosso, con la Valcamonica trasformata in un nuovo Klondike. Tutto ciò per merito di un fiore, il Crocus stativus della famiglia delle Iridacee, da cui con molta pazienza e applicazione si ricava lo zafferano, delizia della buona tavola. Per rimanere con i piedi per terra, va osservato che da qualche tempo le bustine di appetitoso “safran” con cui arricchire “el risott” dei milanesi (e non solo), sono diventate elementi significativi di un rilancio dell’economia agricola camuna. Un segno positivo in tempi di magra e mentre l’imminente Expo dedicata alla nutrizione nel mondo diffonde lusinghe a piene mani.

Ciò che può sorprendere il profano è che le pepite, cioè i fiori, da cui ricavare questo “oro rosso” sono alla portata di qualsiasi coltivatore diretto e si prestano a essere coltivati su terreni adatti, purché non argillosi, fino a quote prima ritenute erroneamente proibitive. Insomma, pochi forse prima avevano capito che la coltivazione del Crocus stativus, per anni appannaggio dell’Abruzzo e della Sardegna, poteva avere anche scenari alpini come questi, con l’Adamello e la Concarena a civettare sullo sfondo. E con positive ricadute non soltanto nell’economia locale ma nell’immagine stessa del territorio e nella sua promozione agroturistica.
Per dare una scossa all’agricoltura tradizionale e sottrarla a una diffusa immagine da albero degli zoccoli cara a Ermanno Olmi, occorreva però un impulso “dall’esterno” concretatosi in una serie di esperienze di tesi elaborate dagli studenti iscritti al corso di laurea in valorizzazione e tutela dell’ambiente e del territorio montano dell’Università di Milano e decentrato a Edolo, in alta Vallecamonica.

«Gran parte del merito dei nuovi sviluppi dell’agricoltura va sicuramente attribuita alle ricerche di campo per valutare le problematiche emergenti. E all’impegno di un numero considerevole di studenti, oggi più di duecento, che rappresentano la nuova faccia di un ritorno alle terre alte colto e consapevole e non condizionato da ideali libertari come avveniva negli anni Ottanta», spiega la professoressa Anna Giorgi, direttore del Centro interdipartimentale Gesdimont (Gestione sostenibile per la difesa della montagna) dell’Università di Milano con sede a Edolo.
La Giorgi, che non dimentica di avere una nonna con lo zafferano che zampilla nell’orticello a 1200 metri di quota, è anche coordinatrice di un innovativo gruppo di lavoro che, con il supporto di enti e istituzioni come la Fondazione della Comunità Bresciana, sta indagando le caratteristiche di alcune antiche varietà come il mais rosso di Esine, un ecotipo locale con particolari caratteristiche organolettiche, le patate blu e il miele. «La riscoperta delle antiche varietà e la loro coltivazione in montagna è resa possibile dal lavoro di recupero di questi ecotipi svolto in modo sistematico negli ultimi anni da associazioni quali la Pro Specie Rara svizzera, che possiede un ricco catalogo di specie e razze originarie e adattate all’ambiente di montagna. Non a caso, grazie a questa organizzazione senza scopo di lucro, diverse specie tra cui la capra grigia, il maiale lanuto, la lattuga romana ‘coda di trota’, il mais rosso e molte altre hanno ripopolato nuovamente fattorie, campi e orti».

Tornando allo zafferano, dopo i primi campi coltivati a Edolo e a Malonno, l’esperimento è stato allargato alla Valsaviore, a Ossimo e ora anche a Mazzunno, una frazione di Angolo Terme. Uno scenario sempre più ampio con una produzione di qualità che ha indotto qualche produttore, anticipando forse un po’ troppo i tempi, a parlare fantasiosamente di uno zafferano delle Alpi. In effetti, di opportunità di nuovo reddito e di un rilancio dell’occupazione si parla comunque con sempre maggiore insistenza.
Così nell’autunno del 2013 sull’argomento si è sviluppato un seminario sullo zafferano promosso dal polo universitario edolese con una ventina di partecipanti che hanno seguito le relazioni delle studiose Sara Panseri, Alessandra Manzo e della stessa professoressa Giorgi. Approfondire le tecniche di coltivazione del crocus, analizzare caratteristiche qualitative dei primi stock ottenuti sul territorio, proporre una valutazione sulle opportunità connesse con la produzione in un contesto alpino confrontando le diverse esperienze: di questi temi si è discusso e si trova un’utile testimonianza nel portale web dell’Università della montagna (www.unimont.unimi.it) che funziona come importante strumento di raccordo tra università e territorio.
Ma per capire meglio come il Crocus stativus stia per diventare il simbolo di un rilancio o, forse, semplicemente di una speranza per l’agricoltura di montagna, non resta che visitare il Campo Grasso dove si stendono i coltivi dell’azienda agricola Cap Grass a Malonno, a una quota di circa 600 metri: guidati, in questo caso da Nadia Malisia, titolare dell’azienda e di un negozio di fiori a Edolo (nadiafiori@tin.it, tel. 0364 71260, 338 8512050) dove è possibile acquistare il prezioso “oro rosso”.
«Fino agli anni Sessanta – spiega Nadia Malisia – il campo, molto ben esposto e soleggiato, era coltivato a orti e cereali. Poi è stato convertito a prato stabile, il cui terreno ha subito un’aratura inferiore ai venti centimetri e una leggera fresatura per prepararlo all’inizio dalla primavera. Per ospitare i bulbi, acquistati dall’azienda El Muras di Pozzolengo, sono state preparate otto aiuole e il terreno è stato concimato tramite interramento nei solchi di dimora dei bulbi utilizzando letame di animali non trattati con antibiotici, polvere di roccia, terriccio del campo, crusca, siero di latte, foglie secche».
Tutte le operazioni, compresa l’essicazione in forno aperto a legna, sono effettuate manualmente, con risultati eccellenti per aroma, colore e sapore, come ha certificato il laboratorio di analisi chimiche dell’università. Un segnale di riscatto per un’area come questa di Malonno, tra bassa e alta Vallecamonica, con notevoli criticità ambientali per le “scelte urbanistiche devastanti” e la problematica depurazione delle acque denunciate a suo tempo da Legambiente con l’assegnazione di una mortificante bandiera nera.
Roberto Serafin

Info: www.gesdimont.unimi.it