Segnali di secessione nell’Ossola? A Crodo, nota per le sue acque minerali e per un diffuso aperitivo analcolico, la bandiera della Confederazione elvetica ha sventolato festosa, l’estate scorsa, accanto all’insegna della località dipinta a grandi lettere su un muro, lungo la vecchia strada per la Val Formazza che un tempo tagliava a metà l’abitato. Un modo per accogliere, certo, la carovana dello Sbrinz che ogni anno in agosto, con una trentina di someggiatori e un codazzo di trekker perlopiù approssimativamente vestiti da contadini e malgari, parte dall’elvetica Lucerna per ripercorrere la storica mulattiera del Gries tra ragli e nitriti, portando fino alla piazza Mercato di Domodossola odorose forme di quel tipico formaggio.
Ma la Sbrinz-Route è stata anche un’occasione, quest’anno, per offrire un inequivocabile segnale dell’attrazione che, in tempi di recessione, la Svizzera esercita in queste vallate, tra gente i cui antenati assistettero in parte simpatizzando, nella prima metà del Quattrocento, a ben quattro bellicose calate dei confederati.
Senza volersi sbilanciare troppo, la voglia di Svizzera da queste parti va di pari passo con i recenti referendum sulla Scozia dove gli elettori erano nelle rilevazioni ante-voto favorevoli in maggior parte all’indipendenza, o a quello del Veneto sempre più voglioso, a quanto pare, di tagliare i cordoni con “Roma ladrona”. A riportare l’attenzione degli studiosi, in tempi di problematici rapporti di vicinato, su alcune poco frequentate pagine di storia nei rapporti italo-elvetici, sono arrivati recentemente sugli scaffali due corposi volumi editi dal valoroso editore Alessandro Grossi di Domodossola: “Storia di Premia” (367 pagine, 32 euro) a cura di Paolo Crosa Lenz e “Storia dell’Ossola” (463 pagine, 39 euro) di Enrico Rizzi.
«Non c’è dubbio», osserva Crosa Lenz nelle cui vene scorre sangue walser, «che a Premia, Baceno e Crodo, gli invasori elvetici siano sempre stati visti con simpatia. In Antigorio nella prima metà del Quattrocento dominava il partito filo svizzero di Francesco Breno, mentre a Domodossola dominava Lorenzo da Ponte, esponente del partito filo-ducale schierato con Milano. La montagna contro la pianura».
Sottoposti a secoli di dominazioni spagnole, francesi, austriache, milanesi e, saltuariamente, svizzere, gli uomini dell’Ossola si sentono “naturaliter” elvetici, come argomenta a sua volta Rizzi, rinomato storico delle Alpi. Per rendersene conto, basta compiere un piccolo approssimativo sondaggio tra la gente di Crodo nonché “leggere” tra le righe le parole di benvenuto con cui il sindaco Ermanno Savoia ha accolto, con un entusiasmo perfettamente ricambiato, i someggiatori dello Sbrinz.
I precedenti non mancano, come riferisce Rizzi nella sua storia. Nel 1403 fu la contessa Caterina Visconti che, dal suo castello di Milano, scrisse agli uomini di Antigorio incitandoli a cercare una pace stabile con i loro vicini. Quell’anno erano stati i vallesani a venire a Crodo, poi toccò agli ossolani recarsi a Binn per accordarsi perché gli uni e gli altri “con le mercanzie e senza le mercanzie” potessero andare e venire “sicuri e senza impedimento” nei rispettivi territori.
La Svizzera, osserva Rizzi, era una realtà nuova che nel quindicesimo secolo si stava formando tra piccoli popoli diversi, al di fuori dei vecchi schemi, nel cuore dell’Europa. “Una realtà complessa e non priva di contraddizioni”, scrive Rizzi indulgendo nella storia in cui esamina, con la dotta prefazione di Luigi Zanzi, tre fondamentali aspetti: le origini dell’Ossola fino all’alto medioevo, il medioevo maturo, l’età moderna con una serie di minuziose appendici a ogni capitolo sull’orientamento bibliografico e le prospettive della ricerca.
E’ palese, nella storia di Rizzi, il sentimento che lo induce a lodare il buon vicinato con gli elvetici, al punto di citare un giudizio dell’a noi sconosciuto ambasciatore Patavino in cui si specchia, a suo avviso, il carattere dei fieri montanari ossolani. “Un piccolo stato libero fondato sulla diversità e sulla convivenza”, definisce Patavino la Svizzera, “dove quasi in una stessa città s’osserva gran varietà di costumi, d’umori, di genio, di ferocia e di governo (…) e tra tutti, quelli posti sopra le montagne fra siti difficili e selvatici, più esposti all’estremità del freddo e all’impeto dei venti, sono oltremodo fieri, quasi tra loro stessi incompatibili, benché meglio atti alla tolleranza delle fatiche e degli incomodi, né disposti a patire superiorità di dominio alcuno”.
“L’attrazione svizzera”, così definita dagli storici, culminò nel 1515, al termine delle campagne militari dei confederati nell’Ossola, con l’appoggio dei valligiani che la vigilia di San Lorenzo erano scesi a Domo al seguito delle truppe elvetiche gridando “Viva la Lega!”.
Se oggi qualche valligiano si rammarica sogghignando che quell’ardore filo svizzero non abbia avuto seguito, va registrato per completare lo scenario di questa Ossola, tanto amata dai milanesi e molto meno dai piemontesi, che ai tempi di Cavour il Piemonte ebbe il torto di opporsi al progetto del tunnel del Sempione poi realizzato con i contributi e i capitali degli industriali meneghini e delle banche svizzere.
A scavare un fossato incolmabile con i piemontesi, stando alle tante storie raccolte da Rizzi, fu in precedenza un episodio in qualche modo truffaldino. L’Ossola venne ceduta a Carlo Emanuele di Savoia nel 1743 con il trattato di Worms da Maria Teresa d’Austria, sulla base di quanto le riferì per opportunismo un fedele consigliere. “Le aveva descritto l’Ossola con tinte talmente fosche”, racconta Rizzi, “per ottenere l’esenzione dalle imposte e dai censimenti incombenti, che l’imperatrice si era convinta – non del tutto a torto – che quello sterile angolo del suo grande regno potesse produrre solo sassi”.
Roberto Serafin