Se ci si domanda perché il romanzo di Johanna Spyri abbia avuto tanta fortuna nel mondo, al punto da rappresentare dall’Europa all’America al Giappone il mito della montagna, l’unico mito universalmente riconosciuto, non si può onestamente rispondere che il libro della Spyri sia un capolavoro, o che Heidi sia un personaggio letterariamente memorabile, e neppure che l’autrice abbia saputo dipingere in modo magistrale le Alpi e i loro abitanti. La fortuna della Spyri e della sua ingenua creatura non va cercata nella complessità della trama o nel raffinato disegno dei protagonisti, ma nell’esatto contrario: la semplificazione del messaggio. Proponendosi di scrivere un libro per ragazzi in cui lo scopo pedagogico si coniugasse con la semplicità del racconto, la Spyri è inconsapevolmente riuscita in un’impresa straordinaria, a tutt’oggi insuperata e probabilmente insuperabile: creare un mito leggibile e apprezzabile con i linguaggi di almeno tre continenti. Ciò che non era riuscito neppure alla leggenda eterna di Guglielmo Tell, eroe sì, ma soltanto per gli svizzeri e per la “vecchia” cultura mitteleuropea, è diventato possibile attraverso i gesti e le gesta della bambina di Dörfli, che non porta messaggi di redenzione e liberazione, ma si limita a incarnare lo stereotipo della buona pastorella fiduciosa in Dio, cresciuta con il latte delle pecore e l’acqua dei ghiacciai.

La storia di Heidi si basa sulla contrapposizione tra montagna virtuosa e città viziosa, l’antico paradigma della letteratura settecentesca. La creatrice di Heidi, nel 1880, non fa altro che applicare il mito nato cent’anni prima dai turbamenti del romanticismo e assestatosi attraverso un secolo di Grands Tours, ma la vicenda della pastorella di Dörfli è così esemplare, così convincente, così didascalica, che il mito sembra inventato ex-novo per i giovani animi di fine Ottocento, e anche del Novecento, e forse del Duemila…
Gli stereotipi romantici alpini ci sono tutti: il povero cibo montanaro (latte e formaggio) contrapposto al ricco desco cittadino della famiglia Sesemann, il letto di paglia di Heidi e i morbidi cuscini di Klara, la rustica baita di legno e i saloni stuccati di Francoforte, le preziose conquiste del lavoro contadino e la scontata dovizia dei beni di città. E il quadro è corredato dai dettagli: i fiori alle finestre, la verde valle, i liberi uccelli del bosco, il profumo del legno, i bianchi ghiacciai, la magia delle stagioni, i ritmi lenti dell’inverno, l’arcobaleno dei colori estivi. Ma dietro la scontata conclusione a lieto fine, infarcita di riscatti esistenziali, una condizione resta immutabile: la povertà (anche culturale) della montagna contrapposta alla ricchezza (anche intellettuale) della città. Alla montagna sono riconosciute le virtù morali, ma la supremazia politica ed economica resta saldamente in mano alla città.

Al piccolo Peter, colpevole per gelosia di aver distrutto la carrozzella di Klara, l’anziana signora Sesemann domanda generosamente e in buona fede: «Vorrei lasciarti un ricordo. C’è qualcosa che vorresti avere».
«Vorrei una moneta da dieci centesimi», risponde il ragazzo.
Frugò nella borsa, ne trasse una lucente, grande moneta da un tallero e due, piccole da dieci centesimi e disse: «Adesso facciamo un po’ di conti. Questo denaro equivale a tante monetine da dieci centesimi quante sono le settimane dell’anno. Potrai spenderne una per ogni settimana».
«Finché vivrò?», chiese Peter avidamente.
«Ma certo figliolo! Scriverò un’aggiunta al mio testamento: a Peter, guardiano delle capre, una moneta da dieci centesimi per tutta la sua vita».
Questo è l’unico riscatto concesso alla montagna: la sovvenzione della gente di pianura, che è stata guarita ma – pur dichiarando riconoscenza e nostalgia – mantiene saldi il controllo e il potere. La montagna è solo retoricamente libera.
Enrico Camanni