A tutt’oggi manca una storia del turismo alpino e si continua a vivere di immagini consolidate, false convinzioni e luoghi comuni. Per capirci di più bisogna andare indietro di almeno duecento anni, per scoprire che in due secoli il turismo ha rivoltato la montagna dal punto di vista fisico e culturale, con un processo tutt’altro che lineare. Dalla scoperta pionieristica dell’Ottocento, spesso intrecciata con l’alpinismo, si è passati alle elitarie villeggiature del primo Novecento, agli attendamenti popolari del Ventennio, alle prime stazioni moderne e alla diffusione dello sci, il rivoluzionario attrezzo che rovesciando il paradigma della montagna tradizionale (il pendio diventa fonte di piacere!) anticipa il turismo di massa degli anni sessanta e settanta.
Il modello è entrato in crisi alla fine del Novecento e dopo il rovente 2003 è cambiato il mondo, anche se fatichiamo a raccapezzarci. Innanzi tutto è cambiata la montagna dello sci: con il riscaldamento globale non promette più la neve alle medie quote e richiede ovunque l’uso dei cannoni. Da almeno quindici anni, in Svizzera e in Austria, gli esperti prevedono che sotto i 1500 metri lo sci scomparirà e adesso la verità è sotto gli occhi di tutti. Le Alpi hanno mutato paesaggio e colori, con l’avanzata della vegetazione e la ritirata della neve. Dilaga il verde e si riduce il bianco.

Oggi lo sci è al novanta per cento un’industria artificiale, appesa più che mai al consumo energetico e alle risorse idriche. Inoltre lo sci di discesa è una disciplina “sintetica”, nel senso che ogni suo ingrediente è il risultato di un processo di sintesi teso a ottimizzare e omologare il prodotto, con risultati uguali e certi per ogni praticante: neve programmata, piste larghe e lisce come autostrade, impianti rapidissimi che annullano i tempi d’attesa, attrezzi sciancrati che garantiscono il raggio di curva. Lo spazio per l’invenzione personale è ridottissimo e l’emozione è pianificata, prendere o lasciare.
C’è chi lascia, e sono in tanti, e non solo per i costi sempre più alti dei biglietti giornalieri e stagionali. Spesso si lascia per ritrovare quel minimo sindacale di avventura che lo sci di pista non permette più, avvicinandosi a discipline storiche come lo sci alpinismo o a pratiche ritrovate come le ciaspole. Una volta chi saliva in neve fresca con le racchette da neve o le pelli di foca era considerato un paria rispetto allo sciatore firmato, oggi è il libero escursionista che va dove vuole a costo e impatto zero, o quasi.

A di là delle contingenze climatiche ed economiche, che costringeranno gli amministratori e i contribuenti a investire capitali sempre maggiori per mantenere l’industria artificiale dello sci, si profila un’evidente diversificazione dei gusti e delle attitudini di chi va in montagna in inverno e in estate. Non c’è più il turismo alpino, ci sono molti turismi che talvolta convivono, altre volte configgono, altre volte ancora si ignorano. La monocultura turistica non solo non paga più, ma diventa un grave handicap quando accontenta un’unica categoria di utenti allontanando gli altri. Le stazioni capaci di futuro sono quelle che non hanno annullato la vocazione alpina e alpinistica in favore del turismo di massa, salvaguardando l’ambiente, il silenzio, l’“identità” storica e le occasioni di esperienza estetica e ricreativa per i loro ospiti, dall’escursionismo allo sci di fondo, dalle bellezze architettoniche alle figurazioni artistiche, dalla cucina a ogni forma di cultura. Il turista contemporaneo ha sempre più bisogno di essere guidato da mano esperta ed è sempre più riluttante all’intruppamento. Si riducono le differenze culturali tra chi abita la montagna e chi la frequenta, aumentano le competenze, i gusti, le stravaganze, anche le devianze. Il modello turistico è sempre più complesso e solo quei luoghi e quegli operatori che hanno mantenuto un buon margine di manovra possono competere con le sfide e le incognite del futuro.

Nessuno sa come andrà a finire, anche se è prevedibile che le Alpi, cintura verde dell’Europa, saranno sempre più frequentate per ragioni climatiche, economiche ed ecologiche. Di tutte le ipotesi possibili una sola è certa: si salverà chi ha protetto l’ambiente e il territorio, affiancando il bene naturale con il dono dell’accoglienza, della socialità e della vivacità culturale. I recinti e i condomini non hanno futuro, ma neppure la meccanizzazione esasperata, il dominio dell’automobile e la montagna travestita da città. Il modello è cambiato, facciamocene una ragione.
Enrico Camanni