Fra i soggetti meno sopportabili del variopinto zoo mediatico, un premio speciale della giuria lo meritano quegli intervistatori del tutto digiuni del tema del giorno: via radio o per televisione, è lampante da subito che stanno pronunciando e ascoltando parole di cui sfuggono loro del tutto il senso e la portata. Per questo, prima di partire alla carica con le domande sulla Convenzione delle Alpi, ho preferito rispolverare l’argomento. All’epoca della stesura della tesi di dottorato in antropologia alpina avevo addirittura stampato dei documenti, che ritrovo al loro posto sullo scaffale, appena un po’ sgualciti. Leggo velocemente e do una controllata su google per vedere che cos’è cambiato dal 2010 a oggi. Poco, quasi niente.
La musica è ben diversa quando a suonarla è Patrizia Grosso, direttore del Parco naturale del Marguareis, il più meridionale delle Alpi piemontesi: «Certo che so che cos’è la Convenzione delle Alpi e di che cosa si occupa. È il trattato, sottoscritto tra gli otto Stati alpini e l’Unione Europea, che sancisce l’unità del territorio alpino al di là dei limiti nazionali e che prospetta la necessità di un coordinamento delle politiche e delle azioni». Resto di stucco: nessuna esitazione. «La Convenzione si occupa di favorire politiche comuni di tutela e sviluppo sostenibile del territorio alpino e delle sue risorse – prosegue inarrestabile – e lavora sulla divulgazione della cultura del mondo alpino, attraverso la cooperazione tra i Paesi firmatari».

La prossima domanda è più difficile, riguarda il modo in cui la Convenzione in qualche modo si incarna, viene fatta propria da chi amministra per trasformarsi in azioni concrete. Insomma, questa Convenzione, è uno strumento utile per il suo lavoro?
«Naturalmente. È vero che non produce impatti diretti e immediati sul quotidiano della gestione di una singola area protetta, ma è altrettanto vero che le tematiche sviluppate e le iniziative assunte in applicazione della Convenzione costituiscono un quadro di riferimento fondamentale che ispira le scelte e le decisioni di chi si trova a gestire enti e istituzioni in ambito alpino. La Convenzione, in particolare, diventa poi qualcosa di ineludibile quando si tratta di costruire progetti e programmare attività sul lungo periodo in un ambito territoriale come le Alpi del Sud».
Progetti che prevedono cofinanziamenti europei, come gli Interreg e i Life, sono oggi non soltanto il fiore all’occhiello di molte aree protette, ma anche il solo modo rimasto ai Parchi regionali piemontesi, le cui risorse sono ridotte al lumicino, per fare qualcosa in più dell’ordinario, talvolta semplicemente per poter continuare a occuparsi di conservazione e gestione dell’ambiente anche se cronicamente sotto organico e senza possibilità di assumere.
Nel panorama per molti versi sconfortante degli ultimi anni, ha sentito parlare di più o di meno della Convenzione delle Alpi? «Direi di più, in parte perché l’assunzione da parte dell’Italia della Presidenza della Convenzione ha creato maggior dibattito nel nostro Paese, in parte perché, essendo il nostro Parco coinvolto in un progetto per la candidatura del territorio delle “Alpi del mare” a patrimonio mondiale dell’umanità, è stato naturale e indispensabile approfondire alcune tematiche tipiche della Convenzione».
Così la Convenzione diventa fondamentale ad altissimo livello, è cioè qualcosa da tenere bene a mente quando si tratta di definire strategie di cooperazione sulla scala di una macroregione o dell’intero arco alpino, oppure qualora si debba affrontare l’impresa collettiva, lunga e complessa, di una candidatura Unesco. Quindi, riassumendo, abbiamo una Carta (la Convenzione) che serve a produrre altra carta (i progetti, le candidature) che finalmente porterà ad azioni utili e concrete sul territorio (che però dovranno essere meticolosamente rendicontate durante e dopo il loro svolgimento anche in formato cartaceo, con l’antipatico effetto collaterale dell’abbattimento di altri ettari di foresta). Certo fanno una bella fatica i principi a diventare buone pratiche!

Se i valori espressi dalla Convenzione sono validi, quali sono le sue aspettative nei confronti del lavoro della Convenzione? «Siamo fermi allo stadio della speranza. Che però è anche il primo e fondamentale, senza il quale non si inizia nemmeno a lavorare. La speranza che ogni Stato, ai vari livelli istituzionali che gli sono propri, comprenda l’importanza e l’ineludibilità di una costante e completa cooperazione per la salvaguardia dei territori alpini e per un loro rilancio, rispettoso dell’ambiente naturale, della cultura e delle tradizioni, che sostenga in egual modo le popolazioni che vi abitano e favorisca un ritorno di abitanti e di attività nelle ampie porzioni oggi presenti di territorio abbandonato».
Che è un po’ come sperare che prima o poi si cominci a rispettare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo o a ridurre emissioni inquinanti e consumi: un’utopia lontana nel tempo e nello spazio, ma che dà la forza di comportarsi civilmente qui e ora. In chiusura di intervista mi viene da pensare che la Convenzione delle Alpi sia un po’ come il trapassato remoto: qualcosa che bisogna conoscere se si vuol avere peso in certi consessi, un quid che fa fine conoscere e saper citare a proposito, ma che di fatto si incontra quasi esclusivamente sulla carta perché stenta ancora a materializzarsi su bocche e voci vere.
Irene Borgna