Un giorno si presenta a Massello, in Val Germanasca, un imprenditore del legno di una ditta di Colico per acquistare un lotto tagliato e venduto in catasta a 120 € al metro cubo. Vince l’asta e riparte con i suoi tir carichi di materia prima alla volta di una segheria lombarda, dove il larice dopo essere stato lavorato ed essicato riparte, sempre sui tir, per essere rivenduto in giro per l’Italia e per l’Europa, pinerolese compreso, a 800 € al metro cubo. Della risorsa legno al territorio d’origine è rimasto solo il 13% del valore, mentre l’87% è finito in Lombardia. Con buona pace degli imprenditori locali e di Greta Thunberg e di tutti i ragazzi che ogni venerdì chiedono a gran voce più rispetto per la natura e meno immissioni nell’ambiente. Ma d’altronde se il territorio di produzione non riesce a sviluppare una filiera efficiente non può che esportare materie prime e importare lavorati, un po’ come succede, purtroppo, nei paesi in via di sviluppo che commerciano con i paesi del primo mondo.

Eppure i presupposti per creare un business sostenibile per l’ambiente e proficuo per le tasche degli imprenditori, puntando su risorse locali certificate, ci sarebbero. Come sanno bene i professionisti che gestiscono le risorse forestali di valle, impegnati nella creazione di un marchio legno del pinerolese.
E ci mancava l’ennesimo marchio, direte voi. Invece, spiegano i forestali, si tratta è una condizio sine qua non, di un passaggio obbligato per mettere in piedi un mercato locale efficiente. Come? Ce lo spiega Igor Cicconetti, dottore forestale impegnato nelle valli alpine del pinerolese e tra i promotori  dell’iniziativa: «Dobbiamo creare una “Catena di custodia” che tenga insieme boscaioli, falegnamerie e produttori della zona in grado di lavorare con il legno locale. Come accade già a livello globale con il Pefc (Programme for Endorsement of Forest Certification schemes, un sistema di certificazione per la gestione sostenibile delle foreste, ndr), vogliamo realizzare un disciplinare, più semplificato di quello internazionale ovviamente, in grado di essere messo in atto sul nostro territorio dai proprietari di boschi pubblici e privati».

Stiamo parlando di un’area geografica ristretta (Val Chisone, Valle Germanasca, Val Pellice e Val Lemina) ma con una produzione di legna annua significativa: circa 8.000 tonnellate dai boschi pubblici, e 20 mila da quelli privati. Più altre 30 mila tonnellate, sempre all’anno, dai filari fuori foresta (30% pubblici, 70% privati). In tutto sono 60 mila tonnellate di legna prodotta all’anno che, approssimando un prezzo medio di 120 euro a tonnellata per il legno in catasta e  800 euro per quello lavorato ed essicato, fanno una differenza di 40 milioni e 800 mila euro “sottratti” al territorio (rispettivamente 7 milioni e 200 mila euro a fronte di 48 milioni). Un business non male, vero?
«Oggi il legno da opera, quello utilizzato per realizzare mobili, infissi o altri prodotti di qualità – Continua Igor Cicconetti – arriva tutto da fuori regione o addirittura dall’estero. Mentre il legno locale viene usato solo come materiale di scarto. Eppure l’abete rosso canadese, ad esempio, impiegato da diverse ditte locali che vendono infissi su Torino e Cuneo, ha le stesse caratteristiche del nostro». Ma senza la possibilità di avere “magazzino” di legno da opera non si riesce a creare la filiera, e l’abete del pinerolese rimarrà in foresta, o al limite finirà nella stufa. Il progetto dei forestali locali vuole quindi impegnarsi nella creazione di una certificazione per l’etica e di un magazzino per l’opportunità economica, che aiuti a sviluppare un mercato locale. In un secondo momento poi si potrà addirittura pensare all’esportazione di prodotto semi lavorato (sempre facendo attenzione agli alert di Greta Thunberg…), aumentandone la produzione.

Il progetto di creazione di una filiera di legno locale certificato portato avanti dagli agronomi locali serve anche a contrastare una delle piaghe del mercato mondiale del legno: il problema dell’importazione di legno illegale, ovvero senza alcun tipo di certificazione, che a rigor di legge non potrebbe più circolare in Europa e nel mondo. Attualmente si stima che i 2/3 del legname mondiale sia di provenienza illegale, ed essendo l’Italia il primo dei grandi importatori mondiali, il problema non è affatto da sottovalutare per il futuro del nostro pianeta.
«La certificazione Pefc oggi non è più solo un dovere ambientale, o una prassi valorizzabile a livello di marketing – conclude Cicconetti – ma permette di inserirsi in mercati globali e locali altrimenti irraggiungibili. Come quello degli enti pubblici italiani, che sono ormai tenuti a inserire nei bandi emanati le garanzie di provenienza del legname, e questo apre nuove potenzialità a chi lavora bene e con responsabilità ambientale, fino a pochi anni fa inimmaginabili».
Maurizio Dematteis