Le Unioni montane di Comuni piemontesi, che secondo la Legge regionale n.11/2012 devono essere costituite dall’aggregazione volontaria di Amministrazioni montane, hanno suscitato non pochi “scetticismi” da parte degli addetti ai lavori. Questo è quanto emerge da una serie di interviste che abbiamo fatto ad alcuni dei presidenti delle Comunità Montane ancora in carica, riguardo la questione “nuova governance” e il passaggio di testimone dai vecchi ai nuovi Enti montani.
Ma prima di entrare nel merito dell’“operazione restiling” in atto facciamo un minimo di cronistoria. Tanto per non dimenticare l’iter che ci ha portato all’attuale situazione.

Dal momento che la maggior parte della popolazione piemontese vive in territorio montano (41,7%, Anci 2012), per lo più in Comuni di piccole dimensioni e in condizioni di marginalità (Ires Piemonte, 2010), da tempo nella regione pedemontana è stata avviata una politica di sostegno ai processi di aggregazione intercomunale. Politica supportata per altro a livello nazionale dai seguenti passaggi legislativi:
L. 1102/1971: istituzione delle Comunità Montane come ente per la tutela delle specificità montane.
L. 142/1990: definizione di Comunità Montana come Ente locale di secondo grado dotato di autonomia statutaria.
L. 97/1994: attribuzione alle Comunità Montane di finalità specifiche quali la promozione e la valorizzazione delle zone montane.
Successivamente poi, con la Finanziaria 2008 (L. 244/2007), sempe a livello centrale viene deciso di ridurre l’autonomia di tali Enti contestualmente alla diminuzione dei fondi erariali in loro favore, e alla loro presenza sul territorio. In Piemonte, ad esempio, delle 48 Comunità Montane esistenti ne sono sopravvissute solamente 22 fino ad oggi.
A partire dal 2012, poi, su iniziativa della Regione con la L.R. n°11, la montagna piemontese ha intrapreso la sua scalata verso una riorganizzazione territoriale e istituzionale determinante il superamento delle Comunità Montane e l’emanazione del D.L. n°373 del 2013 “Legge sulla montagna”.
Tale disegno di legge stabilisce che l’Unione montana di Comuni sia costituta dall’aggregazione volontaria di Amministrazioni montane con funzioni di tutela, promozione e sviluppo dei territori di loro competenza, eventualmente anche attraverso opportune convenzioni. In particolare le Unioni possono svolgere attività inerenti: l’economia forestale, la sistemazione idrogeologica ed idraulica, le energie rinnovabili e le opere di manutenzione ambientale, la difesa delle valanghe, il turismo, l’artigianato e le produzioni tipiche, il mantenimento dei servizi essenziali (come quello scolastico) e gli incentivi per favorire l’insediamento in zone marginali. Le Unioni possono altresì fare affidamento a un Fondo regionale per la montagna, istituito appositamente per attivare le risorse utili allo sviluppo locale di queste aree.

Il costituirsi delle neo Unioni, potrà forse creare un sistema di governance rinnovato ispirato a modelli più europeistici e collegiali, centrati sullo sviluppo e la gestione territoriale locale integrata. Per questo le Unioni potranno addentrarsi su politiche finora scarsamente esplorate (energie rinnovabili, green economy, servizi pubblici innovativi, smart valley, ecc.), oltre che affrontare in modo adeguato le congiunture politico-gestionali in un’ottica macroregionale.
E queste sono le eventuali possibilità, sulla carta, che si delineano nel futuro della montagna piemontese. Ma cosa ne pensano coloro che fino ad oggi hanno lavorato per attuare le buone intenzioni di leggi nazionali e regionali per dare un futuro alla montagna? Cosa ne pensano i presidenti delle 22 Comunità montane ancora attive?
Abbiamo realizzato una serie di interviste ad alcuni di questi testimoni privilegiati dalle quali emerge, sintetizzando, il timore che non si pensi alle Unioni montane come Enti in grado di fornire nuove possibilità per il governo del territorio, bensì a realtà nate sui calchi delle ormai superate, seppur a volte positive e con ottimi risultati, esperienze delle Comunità montane. Solo alcuni Amministratori, spesso i più illuminati, vedono nelle Unioni di Comuni nuove possibilità e sbocchi per un futuro della montagna innovativo e totalmente rinnovato. Dalla nostra rapida inchiesta emerge quindi che il disegno di legge piemontese corre il rischio di scindere il territorio alpino locale tra “conservatori” e “illuminati”, tra “vecchio” e “nuovo”, senza badare alle tragiche conseguenze che questo potrà causare. Un ennesimo ritardo della politica rispetto alle esigenze di territori che devono assolutamente ancorare le proprie radici nei nuovi flussi di sviluppo innovativo e sostenibile che quotidianamente attraversano i territori macroregionali alpini.
Gli Amministratori locali dovranno perciò essere spinti da uno spirito di intraprendenza e buon senso che non dovrà cedere il posto agli interessi politico-economici, spingendo così i territori e la popolazione civile ad auto amministrarsi.
Cristiana Oggero