“Distende, e mostra il nostro Re de’ Monti,
L’alto Matese, a cui gelate nevi,
Ancor quando in Leone il Sole alberga,
Copron il mento, e la canuta testa”.
Così Lodovico Paterno (Piedimonte Matese, 1533 / Milano, 1559), autore di diversi componimenti, nella sua opera del 1561 “Le Nuove Fiamme”, descrive i Monti del Matese, al confine tra Campania e Molise. Oggi appare quasi impossibile il fatto che, nei mesi estivi di 500 anni or sono, le vette che in Appennino raggiungono e superano i 2000 m slm, potessero essere coperte di neve. Le stesse che nel boom sciistico degli anni ’70, quando la neve non era ancora un miraggio, sono state poi devastate da discutibili colate di cemento. Interessante, a tal proposito, il contributo di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli “Inverno liquido”. La neve, questa sconosciuta! Eh sì, ci siamo già abituati alla sua, pressoché, scomparsa. Temi quali il riscaldamento globale, la desertificazione, i cambiamenti climatici, per citarne alcuni, tutti sinonimi di uno stesso incontrollabile fenomeno “naturale”, stanno progressivamente abituandoci a nuovi paesaggi i cui effetti sapremo cogliere, forse, quando anche i rubinetti delle nostre case saranno solo un ricordo.
E pensare che c’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui la neve, abbondante, si poteva persino accumulare affinché, nei mesi più caldi, si potessero conservare cibi deperibili, raffreddare le febbri delle più frequenti malattie e, soprattutto negli ultimi anni ’50, prima dell’avvento del “frigidaire”, tenere al fresco i cocomeri e realizzare degli ottimi sorbetti desiderati e attesi dai bambini nelle tantissime fiere commerciali e feste patronali. Neviere, ghiacciaie e conserve, erano le strutture che, con qualche differenza architettonica consentivano di accumulare e conservare i necessari quantitativi di neve. Lo sono sempre state fin dai tempi dei persiani dalla cui cultura orientale, non a caso, pare abbia avuto origine il sorbetto, ossia la prima forma “artigianale” di gelato. Una ricerca condotta in Molise nell’ultimo decennio, ha consentito di individuare oltre un centinaio di neviere. Le indagini, iniziate nell’ambito degli studi demoetnoantrolopogici dell’Ecomuseo La Casa, i Mestieri e la Cultura della Memoria di Macchia Valfortore (CB), ha avuto poi seguito per oltre un decennio in occasione di un più ampio studio sulle cavità artificiali della regione Molise. Nei 136 comuni oggetto di indagine sono state censite, individuate e raccolte informazioni su differenti tipologie di neviere: naturali, come i pozzi a neve o i nevai d’alta quota del Matese e delle Mainarde; seminaturali, come le “cundre” dei Monti di Frosolone e di Civitanova del Sannio; a fossa con edificio circolare, nella forma più caratteristica e forse la più arcaica; a fossa con una basso edificio, di mera copertura, rettangolare nelle forme più grandi ed evolute perché divenute già attività commerciali. Sorprendenti, soprattutto per le loro dimensioni e le soluzioni architettoniche, anche alcune neviere/ghiacciaie che potremmo definire monumentali, profonde oltre 15 metri, larghe oltre 10 potevano accumulare ingenti quantitativi di neve. Quasi tutti i comuni del Molise ne possedevano almeno una; solo alcuni, sulle cui motivazioni c’è ancora molto da indagare, erano soliti approvvigionarsi di ghiaccio dai comuni limitrofi nei quali vi erano più neviere o una sola neviera più grande.
I comuni litoranei, come Campomarino e Termoli, che per ovvie motivazioni climatiche non potevano conservare a lungo il ghiaccio nelle loro strutture, in ogni caso esistenti, sottoscrivevano veri e propri contratti con i fornitori dei comuni più interni del Molise (Montorio nei Frentani, Bonefro ed altri ancora) per l’acquisto del ghiaccio; protetto nella paglia, veniva trasportato nei sacchi di iuta a cavallo delle “vetture” dell’epoca, muli o giumente prevalentemente. Attività che, sorprende anche solo immaginarlo, si sono svolte fino agli anni ’50 del secolo scorso quando, prima le fabbriche del ghiaccio e poi i frigoriferi hanno determinato, inevitabilmente, l’abbandono, la distruzione e, più recentemente, la perdita anche della sola memoria dell’esistenza di certe strutture. Erano diffuse in aree rurali, periurbane e urbane; le famiglie nobili o dei “notabili” potevano anche possederne alcune nei loro palazzi baronali o nei loro palazzotti. Avevano quasi sempre, per ovvi motivi, un’esposizione a nord così come una buona copertura vegetale. Tutte avevano due aperture, una per scaricare la neve al loro interno ed una per prelevarla; così come un piccolo scolo/drenaggio per l’acqua che si utilizzava anche per lavarle. Alcune avevano anche un sistema di accesso fatto con scale realizzate a ridosso delle murature perimetrali. Erano gestite da famiglie di “nevaioli” nelle quali gli uomini, le donne e i bambini avevano ognuno un ruolo. Caratteristici anche gli strumenti per il taglio dei blocchi di ghiaccio che si formava, non solo perché la neve era pressata all’interno delle neviere ma anche perché vi si versava sopra dell’acqua per velocizzare il processo di raffreddamento e formazione del ghiaccio; non a caso presso molte neviere era sempre presente un pozzo d’acqua. “Fai il bravo che quando viene la fiera ti compro il sorbetto”, si diceva ai bambini. Ce lo hanno raccontato proprio loro, oggi ottantenni e novantenni, Rocco, Antonio, Mario, Giuseppe, Domenico e tanti altri ancora, quei bambini che a piedi nudi pressavano gli strati di neve che venivano poi separati dalla paglia o dalla “cama” (più nota come pula o lolla), il residuo della “scamatura”, la pratica di “mettere a nudo” le cariossidi di cereali; non è un caso se, ancora oggi, per dire che si è scoperto il segreto di qualcuno si dica “ti ho sgamato”. E chi lo faceva quel succulento sorbetto? E come? E che sapore aveva? Zi’ Vitill’ ‘u saracar’, per citarne uno, pressava la neve in un bicchiere di vetro attorno a un bastoncino realizzato con un ritaglio di canna palustre, una volta tirato fuori lo appoggiava velocemente su un po’ di miele o mosto cotto; i più moderni “sorbettieri”, se così si possono definire, avevano già anche gli sciroppi al sapore di amarena o diversi agrumi. Non è una leggenda, dunque, quella delle neviere che in tutto il mondo si conservano fortunatamente; in molti luoghi si stanno già anche recuperando e, in molti casi, destinando a nuovi utilizzi. E semmai la neve dovesse essere solo un lontano ricordo, le neviere terranno viva la memoria di antiche pratiche… venute dal freddo.
Massimo Mancini