Nel 1991, a Succiso, nell’Appennino ToscoEmiliano, nasce la cooperativa Valle dei Cavalieri perché gli abitanti si ribellano alla chiusura del loro bar. Lo riaprono – dicono – per continuare a vedersi e parlarsi. Poco distante, nel 2003, a Cerreto Alpi, nasce la cooperativa Briganti del Cerreto, perché alcuni giovani del paese si ribellano al destino di andarsene per trovare lavoro, sposarsi e mettere su famiglia. Vi rimangono e diventano giovani padri e madri di nuovi abitanti. Nel 2008, a Pieve di Cadore, i Comuni decidono di farsi impresa con i loro cittadini per rifare del patrimonio ambientale una ragione di vita, lavoro e storie più a monte, riducendo la dipendenza di tutti verso il distretto industriale a valle. Nasce la Cooperativa sociale Cadore partecipata da 10 Comuni e più di 150 altri abitanti. Nel 2015 a Mendatica, un paesino del Ponente ligure in Alta Valle Arroscia, la ProLoco trova nel sogno di giovani ritornanti la condizione per rendersi impresa insieme alla propria comunità. Lo fa e nasce la cooperativa Brigi oggi ritenuta un’istituzione di tutti. Nel 2016 a Dossena, un paese della Valle Brembana, alcuni ventenni riscoprono il loro paese. Riorganizzano feste popolari e riaprono le miniere chiuse – a lungo unica fabbrica della valle – per estrarne storia e farne cultura e turismo. La cooperativa che costituiscono nel 2016, dopo una lunga conversazione con il paese, si chiama IRais, le radici. Da qui la storia assomiglia alle altre: esercizi commerciali riaperti per farne luoghi di servizio per gli anziani e di divertimento per giovani da riportare a monte anche al sabato sera.
Potremmo proseguire di regione in regione, di mese in mese, e forse sarebbe sufficiente questa narrazione a sostenere la nostra affermazione. Sebbene la cooperazione di montagna sia originariamente di luogo e strettamente connessa alla vicenda comunitaria, nel susseguirsi di questi racconti ci troviamo di fronte a cooperatori che hanno nuovamente interpretato questo carattere di fronte alla sua crisi facendone ancora uno statuto e un modello economico. Si parla ormai unanimemente di forme nuove di cooperazione ma la loro nascita riguarda il più generale smarrimento, nello stesso tempo e con gli stessi esiti, dell’impresa di montagna con i suoi connotati tipici e le sue funzioni. Il fare delle cooperative di comunità di montagna è economico e di luogo. Lo è per necessità. In montagna non c’è riconoscimento di un valore che non abbia anche una funzione e una remunerazione per la sopravvivenza. In montagna l’appartenenza e la sua tradizione sono ancora legate alla disponibilità di patrimoni materiali identitari. Sono individuali gli interessi e le aspirazioni che li tengono in vita, necessariamente comuni le attività di trasformazione dei prodotti e di soccorso fra le persone che li rendono realizzabili. In montagna non si vive senza un racconto comune, senza uno pseudonimo associabile a un ruolo nel testo quotidianamente rappresentato in luoghi civili o religiosi (il bar, il sagrato, il municipio, la cooperativa, l’aia, il mercato, le sagre,…). In montagna non si vive se non facendo di tutto e traendo funzioni sociali per il vivere da mezzi e attività di produzione necessari al sopravvivere (il trattore, il furgone, i viaggi di lavoro, la stalla…). In montagna gli abitanti devono essere disponibili a continui sconfinamenti. È così da sempre per ognuno di questi aspetti, e le cooperative di comunità ritrovano e riapplicano tutto questo. Diversamente che nel passato lo fanno intenzionalmente e rigorosamente. Ne aggiornano il lessico, le pratiche e i riti, le tecniche e i mercati. La natura cooperativa, in alcuni contesti unica vera novità, serve tutto sommato alla sola reistituzionalizzazione del contesto comunitario al quale i gesti economici devono potersi riferire. Una commodity fondamentale.
In ciò troviamo la chiave più profonda degli esiti coesivi di questa intraprendenza. Le interdipendenze culturali, sociali e produttive che abbiamo brevemente sintetizzato sovrappongono la narrazione civile a quella sociale ed economica, garantendo co-produzioni su tutte e tre le dimensioni non per scelta politica ma perché condizione all’innesco e allo sviluppo dell’impresa. Da un lato assicurano accesso ai patrimoni materiali e immateriali necessari (consenso), dall’altro successo di mercato (brand). Se così non fosse, se la condizione di luogo non fosse anche condizione di competitività, sarebbero deluse in questi progetti come in altri che potremmo comunque riferire al tema del welfare comunitario e di montagna, le attese di coesione sociale delle quali parliamo e che attendono soluzioni innovative superando meccanismi ormai insostenibili o saturi di delega.
Giovanni Teneggi