Le montagne, in generale, sono state rappresentate da molte culture e società arcaiche alla stregua di archetipi della realtà materiale ed immateriale del cosmo. Da un lato, quindi, esse venivano percepite come la materializzazione del sacro e del “numinoso”, dello spazio inviolabile, del tramite fra dimensione tellurica e uranica (“palo sacro”). Nel ripensare a quanto ci è pervenuto attraverso le narrazioni cosmologiche, per tradizione orale o scritta (“religioni del libro”), la montagna si associa ad immagini ricorrenti di un luogo tutto particolare, unico ed irripetibile, diverso dagli altri spazi geografici. Questa visione, apparentemente datata e mitologica, non si è completamente estinta nelle società a noi più vicine. Nei momenti di crisi sociale, economica, etico-morale, la montagna ritorna al centro di un’attenzione che, pur se circoscrivibile entro piccole enclaves sociali talora “dissidenti” – come direbbe l’antropologa inglese Mary Douglas – esprimono tuttavia nuovi bisogni di rottura con la “prosa del mondo” e nuove istanze di riposizionamento lavorativo ed esistenziale. In Europa, le Alpi sono state protagoniste importanti di una svolta epocale, soprattutto a partire dall’anno 1000. Svolta collegabile a quelle coupures (fratture) di carattere sociodemografico, istituzionale ed ambientale, che hanno aperto scenari inediti in questa nostra realtà montana, molto strategica dal punto di vista geopolitico.
Anche le paure “millenariste”, legate alla profezia apocalittica della fine del mondo, hanno riproposto il ruolo delle montagne quali destinazioni sicure dal sapore escatologico. Ma queste considerazioni, certamente significative nella visione della montagna “metafora della vita”, hanno poco di rilevante dal punto di vista che qui ci interessa evidenziare. Viceversa, il richiamo ai grandi mutamenti di ordine economico-sociale, accompagnati da profonde trasformazioni politico-istituzionali e giuridico-amministrative, hanno fatto delle Alpi un laboratorio a cielo aperto nell’invenzione di nuove forme di abitabilità. I territori alpini sono diventati, così, terra di nuove migrazioni di popoli nonché rifugi sicuri da persecuzioni religiose e repressioni politico-militari. Si pensi, in riferimento alle persecuzioni religiose, alle valli rifugio dei valdesi, dei dolciniani. Tuttavia è alla grande colonizzazione rurale medievale delle Alpi, sviluppatasi tra il XII ed il XV secolo, che bisogna guardare con maggiore interesse. Essa ha tratto beneficio, infatti, da condizioni particolari che possiamo ricondurre a due aspetti salienti. Da una parte, sono state elaborate strategie politiche volte a presidiare stabilmente le alte terre ed i passi, immettendo nuovi nuclei di popolazioni. Dall’altra parte, hanno concorso nel rendere possibile la rivoluzione demografica i mutamenti ambientali del cosiddetto “piccolo optimum climatico”. Ciò è documentato da attendibili fonti storiche e dalla storiografia della Scuola francese delle Annales, dove spicca il magistrale saggio di Emmanuel Le Roy Ladurie: «Histoire du climat après l’an mil» (1983). L’intersecarsi di questi due fattori ha generato migrazioni di coloni-contadini resi liberi mediante l’affrancamento dalle servitù feudali. Migrazioni che sono state governate da sapienti e mirate regie politiche. Gli spostamenti di nuclei familiari venivano fortemente incentivati dalla concessione di privilegi vincolati alle cosiddette “libertà di dissodamento” le quali, ancora oggi, costituiscono la base giuridica dell’autogoverno democratico e delle autonomie alpine. Le terre incolte delle montagne, grazie alle condizioni di favore intenzionalmente concesse da proprietari e soggetti istituzionali (monasteri, vescovati, feudalità laica), diventano luoghi di abitabilità a carattere permanente. Anteriormente a questi radicali cambiamenti, i territori in questione erano semplici mete stagionali dell’estivazione alpi-colturale. Si pensi, ad esempio, alla diaspora intra-alpina di cui furono protagonisti i coloni walser. Lo storico della grande epopea migratoria vallesana – Enrico Rizzi – ha pubblicato, in una fondamentale raccolta di regesti dal titolo: “Walser Regestenbuch/Fonti per la storia degli insediamenti walser” (1991), ben 640 documenti d’archivio. Attraverso tali testimonianze ci rendiamo conto che la vita umana sulle “alpi Somme” non sarebbe stata possibile senza buone pratiche tendenti a favorire migrazioni pianificate e produttive di uomini provenienti da territori esterni alle Alpi stesse, uomini «fattisi così – scriveva lo storico Luigi Zanzi – nuovi montanari». Viene allora spontaneo chiederci se non potremmo ripensare oggi, nei modi e nelle forme della contemporaneità, ad esperienze pur così lontane nel tempo ma che hanno cambiato il volto (ossia il paesaggio culturale e l’ambiente naturale) delle montagne alpine. Ancora una volta, perciò, la politica, la demografia e la gestione consapevole di territori estremi come le Alpi sono le nuove sfide che ci attendono per l’immediato futuro.
Annibale Salsa