Paolo Costa, “L’arte dell’essenziale. Un’escursione filosofica nelle terre alte”, Bee, 2023

Che ruolo ha avuto la montagna nella costruzione del tuo “senso di realtà” dall’infanzia all’età adulta?

Un ruolo enorme e per molti aspetti inspiegabile. È da questo stupore primario che è nato “L’arte dell’essenziale”. Nel libro mi servo di ogni tipo di strumento intellettuale – racconto, panoramica, evocazione, analogia, meditazione – per venire a capo di questo enigma. Alla fine la risposta che mi convince di più è che la montagna per chi la ama può rappresentare una soglia che, se attraversata con la debita attenzione, è destinata a trasformare in profondità la propria comprensione epidermica degli snodi fondamentali della condizione umana: pienezza, vuoto, limite, potenza, fragilità, ecc. Ciò che sto dicendo, però, va preso senza troppa enfasi, perché non c’è nulla di epico o eccezionale in questa metamorfosi se non la straordinarietà tipica di quella seconda nascita che ciascuno di noi deve compiere se vuole essere all’altezza delle parti migliori di sé.

Come l’esperienza della montagna, anche quella più semplice che tutti noi possiamo compiere con un’escursione nei boschi, rappresenta dunque un passaggio di soglia che perturba il nostro senso di realtà? Con quali effetti?

Nel libro il tema dell’“incanto” che si può sperimentare in montagna è un tema chiave. Mi preme però far capire al lettore che non si tratta di un’esperienza sentimentale banale, senza costi. In fondo, anche Homo, il protagonista della novella di Musil ambientata in Valle dei Mocheni, Grigia, è vittima di una condizione di incantamento che ha come esito finale la sua autodissoluzione. Il carattere potenzialmente “magico” che molti riconoscono alle terre alte dipende anzitutto dal contrasto con quella condizione di disincanto ricorsivo che per molte persone oggi è diventata una sorta di seconda natura alienante. Da questo attrito può nascere in montagna quel desiderio di cambiare vita che tu, tra l’altro, studi scientificamente. Ma questo desiderio, di cui a me interessa soprattutto il significato spirituale, esistenziale, è destinato a rimanere superficiale finché non produce una trasformazione adulta del proprio senso di realtà. Il reincantamento che ho in mente è quindi in realtà una forma alternativa di realismo: un dis-disincanto.

La diagonalità, piuttosto che la verticalità, è secondo te la dimensione principale dell’esperienza montana: perché? Con quali implicazioni?

Con il termine “diagonalità” ho cercato di riassumere il senso profondo dell’alterità del territorio montano, che va al di là del fatto che ci consente di stare, fisicamente e simbolicamente, “sopra”, più “in alto”, più vicino al cielo. La vera differenza, secondo me non va cercata qui. Riguarda piuttosto l’effetto potente che l’inclinazione del paesaggio alpino ha sull’attenzione. Penso in particolare al modo in cui la morfologia del territorio montano galvanizza i nostri sensi, produce per così dire una sorta di avventurosità naturale. Per capirlo, credo, è utile tornare all’infanzia. In questo senso, Proust ci aiuta più degli alpinisti a capire perché una volta che scocca l’amore per la montagna questo si insedia in noi a una profondità analoga a quella della memoria involontaria che nella Recherche consente a M. di passare dal tempo “perduto”, inteso qui come tempo “sprecato”, al tempo “ritrovato”.

La montagna oggi ci offre la possibilità di sperimentare una “densità di esperienza” che non troviamo in città o nella vita quotidiana: sembra quasi che emerga una religione delle terre alte, o sbaglio?

Più che una religione la descriverei come un’esperienza spirituale generativa. Noi, per ragioni storiche ben note, tendiamo a collegare il “sacro” ai tabù e ai divieti. Ma uno dei ruoli fondamentali del sacro nelle nostre vite non è tanto quello di chiudere, quanto piuttosto di allargare gli orizzonti, rammentandoci il divario che separa ciò che è reale da ciò che è solo apparente, ciò che davvero conta da ciò che desideriamo solo perché tutti gli altri lo desiderano. Questo è il tipo di sacralità di cui fanno esperienza le persone il cui senso di realtà è stato plasmato dalle terre alte. Se c’è una “religione” che accomuna questo gruppo di persone è la religione di cui parlava Rigoni Stern quando cercava di spiegare ai suoi lettori il sentimento ineffabile che provava in mezzo a un bosco: quel luogo incantato che lui stesso ha descritto una volta come “Cattedrale del creato”.

Andrea Membretti