L’Italia è un paese di mare, ma altrettanto è un paese di montagne.
Ma mentre le Alpi attirano torme di turisti, trekker e alpinisti – e anche le vallate più isolate beneficiano almeno di un’attenzione mediatica sul loro spopolamento – questo non avviene per l’Appennino.
Parliamo di un complesso di montagne che ha profondamente influenzato la storia, la cultura, le stesse comunicazioni d’Italia, ma che è come se non esistesse nell’immaginario collettivo. Le strade lo forano; i media se ne occupano solo in caso di valanghe, alluvioni e terremoti; i flussi turistici lo snobbano, considerandolo solo un ostacolo sulla via del mare o attratti dai più altisonanti nomi alpini. Eppure sono montagne tutte da scoprire, che rimangono quanto di più genuino e originale esista ancora in Italia, capaci di nascondere nelle loro pieghe un tesoro di genti, borghi, valli, vette ed emozioni ancora largamente sconosciuto.

Questo grazie a una posizione centrale e a un’estensione da nord a sud che gli consentono di attraversare diverse fasce climatiche, realizzando un patrimonio di biodiversità che non è solo naturale ma anche culturale, agricolo e gastronomico.
In un’epoca di ricerca delle tradizioni e di apprezzamento per le realtà minori, l’Appennino si presta oggi a una riscoperta in chiave wilderness che gran parte delle aree alpine non possono più offrire.
In alcuni degli splendidi scenari alpini tutto è perfetto: ottimi sentieri, rifugi gestiti, segnaletica affidabile, funivie che evitano i più noiosi avvicinamenti e, in caso di guai, anche un soccorso alpino capillare. Sull’Appennino tutto questo non esiste: tracce sbiadite e cancellate dal tempo, rifugi diroccati o chiusi, segnaletica assente o contrastante.
Si tratta allora di trovare un compromesso fra promozione, sviluppo e tutela, ripartendo proprio dai sentieri: questa infrastruttura leggera che riconduce all’uomo, alla sua fatica, ai suoi tempi, alla sua storia; un’orma lasciata nel tempo e nello spazio da chi ci ha preceduto.
La manutenzione di quelli esistenti e la riscoperta di vecchi e antichi tracciati (pastorali come i tratturi, religiosi come la Francigena, attrezzati come le rinnovate ferrate del Gran Sasso) possono fungere da volano a basso impatto per la promozione e lo sviluppo delle realtà territoriali minori.
“Lo sviluppo sostenibile dei territori appenninici non può prescindere dalla promozione di una forma di turismo lenta, che veda al centro la pratica dell’escursionismo su sentieri e itinerari un tempo percorsi da figure come pastori, pellegrini e commercianti”, afferma il Presidente generale del Cai Vincenzo Torti.

Un’azione da condurre sul campo più che nelle aule consiliari e da coniugare con una ricettività minore integrata nella comunità locale: l’agriturismo in luogo dell’albergo, l’area di sosta per camper invece del campeggio.
Senza dimenticare di trarre insegnamento dall’esperienza alpina, un territorio dove la baraonda dei comprensori sciistici nega e ferisce questo fragile mondo di silenzio e solitudine. Eppure con tutto il brutto degli impianti, lì la montagna è più tutelata e rispettata che in Appennino. Molti suoi abitanti sanno che è la loro ricchezza e spesso stanno attenti a non sciuparla.
Serve un necessario equilibrio fra lo sfruttamento, capace di rendere viva la montagna, e la sua tutela, promuovendo e stimolando la sua fruizione durante tutto l’arco dell’anno. Senza demonizzare impianti e piste, prevedere un periodo minimo di funzionamento annuale delle funivie (7 mesi? 8 mesi?) per ottenerne la concessione. Obbligherebbe a pensare fruizioni sostenibili alternative allo sci.
Perché non si va da nessuna parte contro o a dispetto di chi in Appennino, e in montagna, ci vive e ci lavora.
Marco Sances

Info: www.montinvisibili.it