Quando si parla di Alpi, spesso ne vengono evocati i paesaggi pastorali, risultato di uno straordinario equilibrio ambientale raggiunto grazie all’uomo e ai suoi animali nel corso dei secoli. Un po’ ovunque sulle montagne, mandrie e greggi si sono adattati alle morfologie dei diversi versanti arricchendo di fertilità il suolo e resistendo alle variazioni climatiche stagionali. Nella vita delle numerose comunità alpine l’allevamento è sempre dipeso dalla disponibilità di risorse pastorali. I ruminanti si sono così inseriti nella catena “trofica” convertendo le risorse della vegetazione spontanea in alimenti ad elevato valore nutrizionale e con proprietà salutari, terapeutiche e preventive.
Nel corso dell’ultimo mezzo secolo, l’evoluzione di questi ambienti ha subito una profonda trasformazione, sia in termini strutturali che socio-economici. Molte superfici pastorali e con esse le attività agricole collegate, sono state abbandonate. Nei decenni molte sono state le variazioni nelle tecniche adottate e negli indirizzi produttivi, spesso allontanandosi da sistemi più coerenti con i territori di montagna. Si tratta di attività che tuttavia continuano a rappresentare una opportunità per le risorse locali. Verso la fine del secolo scorso, in numerose aziende con animali appartenenti a razze da latte particolarmente selezionate (cosiddette “cosmopolite” come Frisona e Bruna) si sono addirittura affermate tendenze verso sistemi di allevamento intensivi, mentre in altre realtà l’abbandono è stato netto, definitivo.

Gli allevamenti innovati e potenziati, pur consentendo un aumento rilevante delle produzioni hanno compromesso l’unicità e le prerogative qualitative del latte che erano proprie delle razze locali preesistenti. Questo ha generato, nel tempo, problemi ambientali, a seguito dell’abbandono di aree più marginali e complesse da gestire, comportando una globale perdita di biodiversità animale e vegetale. Secondo i dati dell’ultimo censimento in agricoltura (2010) nel territorio alpino italiano le aziende con bovini che producono latte sono oltre 12.000, pari al 64 % delle aziende zootecniche del territorio montano italiano e al 30% di quelle sul territorio nazionale. La produzione commercializzata di latte è però pari a poco più di un milione di tonnellate, solo un 10% della produzione nazionale. A conferma di questa intensificazione dei sistemi, soprattutto diffusi nelle Alpi centro-orientali, la produzione di latte per allevamento è più che raddoppiata. Sempre dall’ultimo censimento si contano 220.000 vacche da latte con una produzione media di 5.000 litri di latte per lattazione, con una media che si avvicina a 20 litri di latte per capo al giorno, certo poco compatibile con le risorse di montagna.
La compromissione degli ambienti pastorali è stata perciò la conseguenza della riduzione di aziende gestite con sistemi più tradizionali, essenzialmente piccole aziende familiari, dedite alla produzione di fieni nei fondovalle e al pascolo estivo in quota. Sistemi che avevano difeso razze locali e protetto dall’abbandono aree di pendice, particolarmente difficoltose da utilizzare. Modelli che attualmente sono difficilmente in grado di reggere una competitività basata sulla capacità di ridurre i costi di produzione.
A fronte di questo fenomeno che si è nel tempo intensificato, in quest’ultimo decennio si sta tuttavia osservando qualche virtuoso esempio di ritorno a quei sistemi originari, più coerenti con le disponibilità della risorsa pastorale. Essi puntano sull’opportunità, attraverso il prodotto, anche innovativo, di evocare il territorio di produzione e i suoi valori ambientali, storici e culturali. L’attenzione è pertanto rivolta alla biodiversità zootecnica con collegamenti diretti ai relativi prodotti, come latte, formaggi, carni, ma anche lane e derivati. Un interessante esempio di ritorno è quello della razza Bruna alpina originale, di origine svizzera, denominata Bruna Originale o Ob (dalle valli del nord Piemonte alla Valtellina). Si tratta di animali che discendono dalla linea originaria, selezionata quasi un millennio fa dai monaci dell’Abbazia di Einsiedeln nel Cantone di Schwyz.
Si osserva però anche un significativo aumento di allevamenti estensivi con bovini da carne e soggetti improduttivi, di carattere tendenzialmente brado. Si tratta di mandrie con un elevato numero di capi, raccolti anche da diverse aziende, che sono presenti diffusamente, non solo sulle Alpi italiane. Si tratta di sistemi produttivi orientati alla produzione di vitelli che in passato erano diffusi solo nei contesti pastorali più marginali mentre attualmente occupano alpeggi dove si produceva latte. Non infrequentemente si ritrovano mandrie da carne con razze inconsuete per i territori alpini, come i bovini Highland, di origine scozzese.
In questi ultimi anni si è poi osservato un andamento differente fra le diverse specie di ruminanti: mentre il comparto bovino ha registrato come si è detto una contrazione del numero di aziende, il settore dei piccoli ruminanti ha invece visto aumentare sia il numero di capi che quello degli allevamenti. Ciò è avvenuto in particolare per i caprini, con un netto incremento di aziende destinate alla produzione casearia, evidenziando come questo fenomeno non sia solo da legarsi ad aree più marginali.
L’Unione Europea è da tempo intervenuta attraverso un sistema normativo volto alla protezione della qualità di numerosi prodotti anche di questi territori, prevalentemente caseari, come le note Dop (prodotti a Denominazione di Origine Protetta). Tra i marchi si è aggiunta dal 2017 l’indicazione facoltativa “Prodotto di Montagna” (Pdm) che pur richiedendo una certa cautela e coerenza nell’applicazione potrebbe rappresentare una risposta per la tutela dei prodotti e contribuire a salvaguardare i territori dagli effetti della globalizzazione e della concorrenza del mercato internazionale.
Una pesante criticità che purtroppo perdura è l’illecita applicazione delle forme di premialità della Pac per la montagna: si tratta del fenomeno della speculazione degli alpeggi, con episodi che continuano a sorprendere per la gravità e per le inaccettabili difficoltà a porvi limite.
In conclusione, il diffuso abbandono di pratiche tradizionali di allevamento, ed in generale di attività per la cura e governo del territorio, ha comportato notevoli perdite di un prezioso patrimonio di conoscenze. La salvaguardia dei paesaggi creati dagli allevamenti è intento da perseguire anche per il potenziale ruolo economico e le connesse attività turistiche e culturali. In attesa di conoscere l’esito della candidatura italiana, con Austria e Grecia, della “Transumanza” a patrimonio culturale immateriale dell’umanità Unesco, occorre riaffermare che tutto ciò non deve prescindere dalla permanenza nel territorio di una rete di allevamenti, preferibilmente di piccole dimensioni, in grado di mantenere la qualità e tipicità delle produzioni e di conservare le risorse pastorali alpine. Ciò deve essere inteso in una visione di sostenibilità non solo ecologica, ma anche nelle sue dimensioni economica, sociale e culturale.
Luca Battaglini