L’abitabilità è una particolare risorsa indispensabile alla vita dei contesti abitativi. Buona parte della letteratura sui commons urbani (Foster e Iaione 2016) focalizza l’attenzione sul diritto di accesso al bene in comune, con particolare riferimento alle popolazioni povere ed emarginate (Harvey 2013). Possiamo però anche estendere il concetto di abitabilità all’idea che in un territorio le comunità locali non solo vi si insedino e sopravvivano grazie allo sfruttamento della risorsa, ma prosperino e si mantengano con buoni standard di vita nel corso del tempo: dotazione di servizi e infrastrutture, sicurezza, pulizia, assenza di criminalità, bassi livelli di inquinamento, costo delle abitazioni accessibile ecc. In base a questa prospettiva gli abitanti non solo debbono elaborare un sistema di regole per definire chi ha accesso a quella risorsa, ma devono anche stabilire le modalità con cui tale risorsa possa essere usata, pena la perdita di valore della stessa.
L’abitabilità è quindi definibile come la capacità di un territorio di accogliere e promuovere le varie funzioni tipicamente urbane (residenza, produzione, svago, movimento ecc.) e di governare fenomeni endogeni ed esogeni al fine di rendere utilizzabili quei contesti in base agli interessi della comunità che si vuole insediare. La prospettiva è quindi quella di osservare la “performance” di un determinato spazio o contesto e non solo il “diritto” ad un suo sfruttamento. Essa rappresenta l’esito del processo di interazione di almeno tre fattori: gli aspetti fisici e spaziali del contesto, il sistema di valori di una comunità locale che si insedia e il sistema di regolazione usato per regolare la relazione tra i primi due.
Sono moltissime ormai le esperienze in tutta Europa che pongono l’accento sull’idea che, per produrre contesti abitabili, debbano essere elaborate una serie di soluzioni istituzionali e organizzative in cui gli abitanti, cioè i fruitori dei contesti, giochino un ruolo attivo e di primo piano nella definizione del sistema di regole e nella produzione di abitabilità. Si possono individuare almeno tre modelli di azione. Il primo è quello dell’autoproduzione residenziale, che avviene qualora un gruppo di persone si attivi per soddisfare le proprie esigenze abitative. La forma più conosciuta e diffusa in Italia è quella delle cooperative a proprietà indivisa, mentre all’esterno si stanno diffondendo i Community land trust. Questo modello si basa sull’idea che la proprietà suolo o dell’intero complesso su cui sorge sia detenuta in forma indivisa e gli abitanti possano beneficiare di un alloggio a un prezzo basso per un periodo di tempo molto lungo. Gli abitanti non potranno mai rivendere le abitazioni a prezzi di mercato. Questo modello è particolarmente utile per contrastare fenomeni di accrescimento incontrollato dei prezzi delle abitazioni, ad esempio in aree turistiche. Un secondo modello di azione è quello dell’autoproduzione di servizi. Se infatti il gruppo di abitanti non detiene la proprietà del complesso residenziale in cui abita, può attivarsi per accrescere la dotazione dei servizi con lo scopo di migliorarne la condizione abitativa. Il vantaggio di questo modello consiste nel rispondere in modo tempestivo e accurato a problemi abitativi quotidiani favorendo la responsabilizzazione all’uso degli spazi abitativi. Un terzo modello invece si propone di attivare la popolazione locale per riqualificare interi quartieri. L’esperienza di Coin Street Community Builders a Londra, ad esempio, mostra come la capitalizzazione in un fondo comune di reinvestimento a beneficio degli abitanti (un commons urbano), possa essere usato per fermare la progressiva terziarizzazione di un quartiere e la realizzazione di una serie di servizi di vicinato (pedonalizzazione del lungofiume, apertura di servizi di quartiere, promozione del commercio ecc.). Il vantaggio di queste forme di azione è quello di favorire la concentrazione di investimenti su un determinato contesto residenziale problematico in cui sono in atto fenomeni di abbandono e degrado, favorendo partenariati pubblico-privati.
Nei territori montani l’autoregolazione abitativa trova un campo di applicazione privilegiato. Essa potrebbe ad esempio essere usata con lo scopo di organizzare l’arrivo delle nuove popolazioni in forma di comunità residenziale o prevenire lo spopolamento delle aree montane stesse. In particolare i fenomeni di sovrapproduzione residenziale di seconde case generano un’alterazione dei prezzi delle abitazioni tale per cui anche i figli dei residenti attuali non hanno spesso le risorse per accedere al mercato della casa, costringendoli a spostarsi in territori limitrofi e quindi consumando suolo prezioso e innescando fenomeni di pendolarismo. Analoga esigenza di accedere al mercato abitativo l’avrebbero i soggetti che decidono di trasferirsi in questi contesti come nuovi abitanti.
Anche il secondo modello descritto sopra può essere usato in modo particolarmente proficuo per la produzione di servizi che nelle valli montane sono particolarmente preziosi: si pensi alla fornitura della connessione a Internet o all’allestimento di spazi multifunzionali per la produzione di servizi (es. distribuzione e marketing di prodotti locali). Infine si segnala che il ruolo di antiche istituzioni collettive millenarie, quali ad esempio le Regole, assomiglia in tutto e per tutto al ruolo dei Community Builders di Londra di cui sopra. Occorrono partenariati pubblico-privati per agire in modo coordinato su obiettivi complessi su porzioni di territorio ampie. La presenza di istituzioni non profit radicate rappresenta la garanzia che i finanziamenti raccolti vengano reinvestiti a vantaggio delle comunità locali stesse.
Francesco Minora
Letteratura ed esperienze interessanti che non vedo come possano essere calate in un territorio montano spopolato, all’abbandono e tenuto sotto controllo da amministratori e privati (molto spesso i due ruoli coincidono) come quello in cui vivo.