“Lo stato attuale della zootecnia valdostana è disastroso”, sono queste le parole che aprono lo sfogo di Jean Paul Chadel, giovane allevatore, presidente dell’Arev (Associazione regionale degli allevatori valdostani).
Chi non si trova a vivere stabilmente sul territorio di questa regione montana ignora le difficoltà che il settore agricolo sta vivendo in modo sempre più grave ormai da qualche anno. Apparentemente sembra che nulla sia cambiato: lungo l’autostrada in una giornata finalmente assolata di fine maggio si possono vedere vacche al pascolo, piccole greggi di pecore, intere famiglie alle prese con la fienagione nei prati di fondovalle.
“Nell’ultimo decennio ha chiuso all’incirca il 30% delle aziende”, continua Chadel. La passata stagione è stata disastrosa per una serie di eventi naturali concatenati: una gelata a fine aprile che ha comportato una fienagione scarsa, in estate la siccità ha nuovamente influito sul fieno, ma soprattutto ha accelerato la discesa dagli alpeggi anticipata. Acquistare fieno nell’inverno appena finito è stato un salasso per gli allevatori, dato che il prezzo era elevato a livello nazionale.
Ora sarebbe il momento di pensare alla monticazione, ma c’è ancora tanta neve in quota. “Ci sono stati anche danni a molte strutture e alla viabilità. Bisognerà affrontare spese aggiuntive, ma gli allevatori non se lo possono più permettere”.
Non può essere solo una stagione “cattiva” ad aver determinato una situazione del genere.
“Come tutta l’agricoltura/zootecnia di montagna, si dipende in linea diretta dagli aiuti Cee che, dal 2015, sono parzialmente fermi. Non sono i contributi ad aiutare l’allevamento, ma piuttosto l’hanno distrutto. Quello che abbiamo è un sistema suicida. Gli aiuti comunitari sono stati pensati per aiutare chi, in montagna, gestisce un territorio che ha bisogno di cure. Se non lo si facesse attraverso la zootecnia, costerebbe 20 volte di più. Le aziende ora sono sull’orlo del collasso perché senza i contributi non si vive e qui sta l’errore.”
Attualmente infatti gli allevatori stanno lavorando in perdita: il latte, sia venduto ai caseifici, sia trasformato in proprio, costa più di quello che rende. “La Fontina dà lavoro in valle a centinaia di persone, ma non dà più da vivere a chi la produce. Abbiamo un sistema cooperativo per aiutarci, ma è gestito politicamente e non sta facendo gli interessi degli allevatori. Inoltre proprio noi allevatori non siamo abbastanza cooperativi!”.

Le dichiarazioni di Chadel sono pesanti, ma è la voce di chi questa realtà la vive anche sulla propria pelle, come allevatore. Nel corso dell’estate 2017, durante delle interviste raccolte in alpeggio, le stesse considerazioni le avevo già sentite più volte e avevo anche incontrato chi aveva deciso di andare controcorrente, producendo altri formaggi oltre alla Fontina o addirittura creando un proprio prodotto marchiato, di pezzatura più piccola e commercializzabile già durante la stagione d’alpe (cosa praticamente impossibile con la Fontina DOP che prevede una stagionatura minima di 80 giorni).
Come si potrebbe intervenire per mutare questo declino? “Oggi la passione negli allevatori c’è ancora, ma l’entusiasmo no. Se il sistema attuale crolla, chi sopravviverà, lo farà lavorando in un altro modo. Si abbandoneranno gli alpeggi scomodi da raggiungere, i mayen (pascoli privati a mezza quota, utilizzati a inizio stagione prima di salire negli alpeggi, nda), le razze locali che sono meno produttive. Anche i prodotti scompariranno: perché dover faticare alzandosi alle 3 di notte per mungere e lavorare il latte due volte al giorno, come si fa per la Fontina? Cambierà tutto, persino il paesaggio”.
Nonostante lo sconforto frutto delle molteplici difficoltà incontrate sul suo cammino in questo primo anno di presidenza, Chadel afferma di credere ancora in ciò che sta facendo: «L’unica salvezza è il prodotto. Bisogna puntare sulla valorizzazione, a partire dalla Fontina d’alpeggio, che sia riconoscibile per il consumatore, di modo che si possa vendere al giusto prezzo. Credo anche in un riconoscimento Igp per il nostro latte. Inoltre c’è la carne, il cui valore non è assolutamente riconosciuto all’allevatore. In Valle d’Aosta abbiamo una filiera interamente impostata per dare benessere agli animali… ma non all’allevatore. Stiamo lavorando su tutti questi punti, ma non è semplice».
Marzia Verona