Il Manifesto ha recentemente chiesto a Carlin Petrini che cosa pensa dell’Expo. Come sta andando la kermesse. Il fondatore di Slow Food ha risposto:
«Ci sono stato una volta, l’aspetto è quello di una grande fiera dove le nazioni e i grandi potentati alimentari si confrontano. Poi ci sono anche Coldiretti e il Vaticano, e ci siamo noi. Insomma l’esposizione è il trionfo del capitalismo e forse non poteva essere altrimenti, le contraddizioni ci sono e sono evidenti, io l’avrei pensata diversamente da una grande kermesse. Ma alla fine ci troviamo tutti lì, la sedia vuota non paga».
La sedia vuota non paga mai, senza alcun dubbio. Il problema è come sedersi senza piegarla, senza cadere per terra. Fuori di metafora, nel caso dell’Expo e del mercato alimentare, come si può sposare un grande evento con la qualità del cibo artigianale, le produzioni locali di qualità, l’interazione tra cibo e territorio, l’attenzione e la cura? Probabilmente non si può.
Analogo discorso vale per il turismo alpino e forse a questo punto, per non confondersi, converrebbe parlare di “turismi” al plurale. Si vanno sempre più delineando due modelli: l’industriale e l’artigianale. Difficilmente integrati e integrabili tra loro. Sono due offerte molto lontane e spesso inconciliabili, basate su domande più sfumate ma comunque differenti. Pensiamo per esempio a Sestriere e alla Val Troncea, in alta Val Chisone, oppure a Madonna di Campiglio e alla Val di Genova, tra le Dolomiti di Brenta e l’Adamello. Si tratta di realtà che convivono a pochi chilometri di distanza, ma che si basano su un uso dell’ambiente e una tecnica promozionale agli antipodi. Nel caso di Sestriere e Madonna di Campiglio si tende a ricostruire la città in montagna, con i suoi confort e le sue costruzioni (fisiche e mentali), nel caso della Val Troncea e della Val di Genova si tende a promuovere l’integrità ambientale dei luoghi, vendendo silenzio, natura e quel po’ di fatica che serve per entrarci dentro. A livello di accoglienza, abbiamo grandi alberghi da un lato e rifugi alpini dall’altro. A livello di accesso, auto da una parte e pedule dall’altra.
La differenza tra i due modelli salta all’occhio, è evidente; meno evidente risulta la macchina che ci sta dietro. Non è una questione di etica – di qua i “cattivi”, di là i “buoni” – ma di macchina, appunto. La prima può solo correre e crescere continuamente, perché se si ferma è perduta, l’altra può anche rallentare, ragionare, correggere e ripartire, non perché il suo pubblico sia meno esigente dell’altro, o più “virtuoso”, ma perché è più responsabilizzato, coinvolto e disponibile all’adattamento.
La problematicità dell’industria turistica “pesante” risalta in particolar modo nel mondo del turismo della neve, che sopravvive con i finanziamenti pubblici eppure deve costantemente ammodernarsi, investire denaro, ingigantire l’offerta. Il turismo leggero o dolce, al contrario, può permettersi una gestione più misurata e flessibile. In una parola: artigianale. Il primo rischia di cannibalizzare la materia prima – l’ambiente alpino –, il secondo può proporsi di valorizzarlo e proteggerlo al di là di ogni ragionevole guadagno, perché è proprio la qualità dell’ambiente che muove il suo pubblico verso la montagna.
Il progetto Sweet Mountains di Dislivelli ha scelto di sposare e promuovere il secondo modello, che è certamente il meno conosciuto in Italia, se si esclude il solito Sud Tirolo. Mettendo in rete le proposte Sweet delle Alpi occidentali (Piemonte e Valle d’Aosta) siamo arrivati a 50 Luoghi con circa 150 realtà coinvolte. In due anni di intenso lavoro abbiamo scoperto un panorama di notevole vitalità e complessità, che aspetta solo di essere portato alla luce. L’offerta non manca neanche a ovest dell’arco alpino, e la domanda nemmeno. La recente estate calda del 2015 ha indirizzato un gran numero di turisti verso le nostre realtà di media e alta quota, alla ricerca – oltre alla frescura – di un giusto insieme di natura e cultura, buoni sentieri e buona cucina, e soprattutto di una vacanza consapevole: scelgo dove andare, ci vado e cerco di capire, non solo di consumare e pretendere.
A noi del team di Sweet Mountains 50 Luoghi sembrano già tanti, un’enormità, perché conosciamo il gran lavoro di ricerca, individuazione e concertazione svolto fino a ora. In realtà i Luoghi Sweet censiti e “arruolati” sono ancora pochi in un’ottica di rete, perché lasciano sguarnite valli intere e non riassumono a sufficienza le grandi opportunità dell’insieme. Per questo motivo, ringraziando i Luoghi fondatori per il prezioso contributo economico che hanno dato alla start-up del progetto (se non fosse stato per loro non saremmo mai partiti), abbiamo deciso di rendere gratuito l’accesso alla rete Sweet. I requisiti da soddisfare rimangono gli stessi – assoluta qualità e serietà della struttura “pianeta” e dei suoi “satelliti”, cioè le vicine strutture ricettive, i produttori e i venditori locali, gli enti ambientali e culturali (parchi, musei, ecomusei), gli accompagnatori (guide naturalistiche e alpine) –, ma non si paga più l’ingresso al sito sweetmountains.it
In questo modo, dopo lunghe riflessioni, Dislivelli torna a dedicarsi a tempo pieno alla costruzione della rete, per dimostrare che il turismo sostenibile alpino esiste, ha le idee chiare e andrà lontano. Nel tempo la rete Sweet punterà ad allargarsi all’intero arco alpino, sempre offrendo una mappatura-proposta-promozione delle buone pratiche e della buona ospitalità montana.
È un lavoro tanto ambizioso quanto urgente, e totalmente no profit, al momento. In tal senso ci rivolgiamo a voi, fedeli lettori e amici di Dislivelli, per un appoggio economico all’impresa. Se come noi credete nel turismo responsabile e ritenete di aiutarci a costruire e mantenere la rete Sweet con un contributo personale, potete effettuare una semplice donazione all’Associazione Dislivelli. Ne abbiamo bisogno e ve ne saremo sinceramente grati.
Enrico Camanni
Però c’è anche una questione etica. Se i turisti sono cattivi distruggono l’ambiente e non lasciano spazio ai buoni. Anche in montagna la tolleranza è diventata antiquata.