Dubito che qualcuno conosca la storia di come i montanari hanno ottenuto che le imprese idroelettriche paghino ai comuni dei bacini imbriferi montani (Bim) un corrispettivo per l’energia elettrica prodotta dagli invasi che interessano il loro territorio.
Eppure quelli dei Bim sono gli unici soldi che vanno alla montagna non perché “area interna”, o sede dei “borghi più belli”, ma perché montagna, e vanno alla montagna perché tecnici e politici della montagna con i loro amici, per più di mezzo secolo, hanno chiesto e alla fine hanno conquistato nell’Italia repubblicana, una legge delle cui profonde ragioni politiche si è persa memoria. Proprio com’è successo con la montagna nella Costituzione: nessuno sa perché c’è ma, chiariamo subito, se non ci fosse il secondo comma dell’articolo 44, «La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane», forse non ci sarebbe nemmeno la legge dei Bim (n. 959 del 27 dicembre 1953, «Norme modificatrici del T.U. delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici»). Quella legge, infatti, sarebbe stata abrogata dalla Corte costituzionale a seguito di uno dei vari ricorsi di cui è stata oggetto. Ma per ricostruirne la memoria, ecco alcune delle tappe più importanti di una storia della quale furono protagonisti i padri della montagna politica italiana.
Tutto iniziava nel 1902 quando il generale, conte Luchino Dal Verme, deputato liberale dell’Appennino piacentino e dell’Oltrepò pavese, disse il 23 giugno 1902 alla Camera dei deputati: “Non è questione, onorevoli colleghi, di nord o di sud; è questione di monte e di piano”. Fu da quelle parole che prese l’avvio l’azione di un gruppo di parlamentari di tutti i partiti e di tutta Italia che cercarono di affermare le ragioni della montagna nell’opinione pubblica e nel Parlamento. Come? Reclamando il diritto dei montanari alle risorse naturali del loro territorio. Quali? Per prima l’acqua.
Ecco cose disse a Napoli nel 1914 Meuccio Ruini, deputato radicale dell’Appennino di Reggio Emilia, al III congresso forestale italiano: “Non crediamo che la ricostituzione montana si possa fare senza ledere interessi, non pensiamo né invochiamo il suicidio dei montanari, che ciò sarebbe troppo eroico. Vogliamo, anzi, finché è possibile, curare i loro interessi”. Ruini sosteneva la necessità di “ricostituire” la montagna e sapeva che per farlo si dovevano ledere degli interessi, che erano quelli delle potentissime industrie idroelettriche. La battaglia era difficile, certo, ma nessuno poteva chiedere “il suicidio dei montanari” e lui era lì per curare gli interessi dei suoi montanari, che di suicidarsi, ossia di abbandonare la montagna, proprio non avevano alcuna voglia. Si svolse quindi una durissima discussione tra i meridionalisti, capeggiati dal liberale Francesco Saverio Nitti, che pretendevano di lasciare mano libera alle grandi imprese idroelettriche, e Ruini e i suoi che reclamavano il diritto dei montanari alle loro risorse: chiedevano la realizzazione di piccoli invasi per l’irrigazione per l’agricoltura e i pascoli della montagna, non solo di grandi bacini per dare acqua ed energia alle campagne e alle industrie della pianura.
La modernizzazione del Paese, e gli interessi dei grandi gruppi industriali, imposero scelte ben diverse che lo sviluppo della montagna: Ruini e i suoi allora persero la battaglia, ma continuarono la guerra. Il decreto istitutivo del Tribunale delle acque e che regolava anche le concessioni d’acqua alle imprese idroelettriche, la “Legge Bonomi” (Decreto Luogotenenziale n. 1664 del 20 novembre 1916), all’articolo 28 prevedeva che:
“Nelle concessioni di grandi derivazioni per produzione di energia può essere riservata, ad uso esclusivo di servizi pubblici, a favore dei Comuni rivieraschi”. Quell’articolo non era lì per caso. Il Comitato parlamentare per la montagna era allora attivissimo nel promuovere le ragioni dei comuni della montagna e quelle ragioni trovarono ascolto presso il Ministro dei lavori pubblici, estensore della legge, Ivanoe Bonomi, socialista riformista di Mantova. A Bonomi riuscì quel che era parso impossibile a Napoli nel 1914: conciliare le necessità dell’industria elettrica con quelle dei comuni montani.
Il diritto riconosciuto dalla Legge Bonomi passò nel Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici (Regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775) che, però, continuò a essere inapplicato, sia per difficoltà oggettive, sia per l’opposizione delle imprese idroelettriche, tra quelle più decisamente schierate a fianco del fascismo. Anche durante la dittatura, però, gli amici della “questione di monte” trovarono il modo di appoggiare le ragioni dei comuni della montagna rispetto alle imprese idroelettriche, come fece Annibale Gilardoni, professore del Politecnico di Milano, un cattolico popolare di Roma vicino a Sturzo, e Michele Gortani, geologo dell’Università di Bologna, di Tolmezzo, in Carnia.

Nell’Italia democratica poi politici e tecnici poterono tornare a discutere delle terre alte, della “causa montana”, nel Parlamento come in tutto il Paese. Ripresero i modi dell’azione avviata da Sturzo con il grande congresso dei sindaci della montagna a Roma del 1919 (vedi articolo “I Commons ai tempi di Luigi Sturzo”). I sindaci dei comuni della montagna si riunirono così in due convegni a Belluno nel 1946 e a Firenze nel 1947, nei quali Gortani, della Democrazia cristiana (Dc), discusse motivazioni e testo del futuro secondo comma dell’articolo 44 della Costituzione. Un testo presentato dai costituenti Dc che ebbe anche l’appoggio del presidente dell’Associazione nazionale alpini, il costituente Ivanoe Bonomi, quello della “Legge Bonomi” del 1916. Gortani poi propose e ottenne l’approvazione della prima legge per la montagna nel 1952 ma prima, a Brescia nel 1949, aveva posto le basi della legge dei Bim nel “congresso della montagna dalla Liguria alla Venezia Giulia”, tra i cui aderenti c’era anche Sturzo. Il deputato della Carnia disse a Brescia “la battaglia che iniziamo richiede l’energia di tutti i montanari perché la potenza di queste società è stata fortissima”. E ricordava a tutti “il pericolo incombente della rottura della diga stessa […] per sé e per i propri figli” (il disastro del Vajont è del 1963, pochi anni dopo). Reclamava l’affermazione del principio per il quale doveva farsi “carico alle società di una contribuzione precisa […] nel senso di contribuire alla sistemazione dell’intero bacino dal quale esse traggono i loro proventi […, come] parziale restituzione di quello che alla montagna è tolto nel campo economico e sociale”.
Nel 1949 a Brescia il deputato e geologo Gortani utilizzava le sue conoscenze scientifiche per riformare i principi del Testo unico del 1933. Con lui si passava dal concetto di “Comuni rivieraschi” che erano solo quelli che si affacciavano sull’invaso della diga a quello dei “Comuni del bacino imbrifero montano”, che erano tutti quelli che contribuivano con le acque dei loro territori al riempimento dell’invaso. “Aumenteranno i prezzi dell’energia per le industrie, le città e le case degli italiani!”, tuonarono le grandi imprese. “Non è giusto allargare a tanti quel che è un diritto dei soli comuni che più patiscono per invasi e dighe!”, affermarono i parlamentari della sinistra. Ma la legge andò avanti. Consci della debolezza dei singoli comuni rispetto alle grandi imprese, furono imposti due principi fondamentali da Gortani e, dopo di lui, dai deputati Dc che fecero approvare la legge dei Bim, nella seconda legislatura, nella quale il geologo non era stato rieletto: che i comuni dei Bim non ricevessero come compenso energia elettrica ma somme in denaro; che i comuni potessero riunirsi in consorzio per meglio gestire sia i rapporti esterni, sia quelli interni tra loro. L’approvazione di quella pur importantissima legge però, in pratica, non significò nulla. L’opposizione delle imprese idroelettriche fu veramente molto forte. Furono necessarie una prima sentenza della Corte Costituzionale nel 1957, una legge interpretativa del 1959, una seconda sentenza della Corte Costituzionale nel 1965. Gran parte dei comuni dei Bim dovette attendere più di un decennio per avere le somme che i padri della montagna politica erano riusciti a far avere loro, per diritto, con la Costituzione e la legge del 1953.
Oscar Gaspari, Università Lumsa, Roma.