Carlo Nani è un “nuovo montanaro” non nel senso comune dell’espressione, tesa a rappresentare chi, in montagna, ci torna dopo un periodo di distacco o ci va a vivere per scelta. Nato nel 1985 ad Albosaggia, vicino a Sondrio, ha infatti sempre vissuto in questi luoghi, senza allontanarsi mai. Il suo è, però, un nuovo ed esemplare modo di vivere e intendere la montagna non toccata dal turismo di massa rispetto alle generazioni che vi sono vissute dal secondo dopoguerra in avanti. Carlo ha scelto, infatti, di riscoprire la storia, l’identità, gli usi e i lavori agricoli della sua terra antecedenti il boom economico e l’industrializzazione, prima del grande esodo verso le città e la pianura, e di reinterpretarli in prima persona per riattualizzarli dopo un lungo periodo di oblio. Fulcro e ambientazione dei suoi sogni e delle sue attività è Carona, una perla incastonata tra le Orobie valtellinesi, in Comune di Teglio. Figlio di un infermiere e di un’impiegata comunale, si diploma geometra presso l’Istituto Tecnico di Sondrio, anche se la sua vera, grande passione è la storia, e in particolare quella della sua montagna, di cui è perdutamente innamorato. Terminati gli studi, ha modo di approfondirla e apprezzarla ulteriormente durante il praticantato presso lo Studio Benetti di Sondrio, sede della nota rivista trimestrale “Quaderni Valtellinesi” e l’esperienza di progettazione degli Ecomusei montani della Val Taleggio e della Val Fabiolo.

Si racconta: “In seguito, dopo una breve parentesi presso uno studio di progettazione di impianti termotecnici ed elettrici, ho lavorato per circa quattro anni presso una ditta edile di imbiancatura e cappotti, ma poi è subentrata la crisi economica e sono restato a casa. Questi ultimi due lavori non erano fatti per me: ore e ore davanti al computer a disegnare o a redigere preventivi e fatture, mentre mi immaginavo con i piedi a mollo in un torrente o su qualche cima”. Nei due anni di pausa dal lavoro, Carlo si dedica a sviluppare e approfondire le sue due più grandi passioni: l’agricoltura e l’andar per monti. “Non concepirei una vita in una città di pianura, dove tutto è piatto e il cielo è grigio e uniforme”, prosegue. “Mi capitava spesso di andare a trovare mia sorella a Milano e mi infastidiva molto il non vedere le nuvole ben definite che si vedono qui sui monti. Abitando in Valtellina, giocoforza si vive la montagna. La cosa importante è saper trovare i lati positivi del stare in ambienti lontani dal caos. Non bisogna essere certo appassionati di teatro, centri commerciali e discoteche per poter vivere qui, ma al contrario la nostra montagna offre molte occasioni per stare a contatto con la natura”. Per mantenersi, da qualche mese Carlo ha trovato lavoro per Edison come guardiano della diga che si trova alle pendici della punta di Santo Stefano, in Val d’Arigna. “Lo stipendio non è buono, bensì ottimo; penso che certi laureati non guadagnino quello che guadagna un guardiano, però – va detto – è una vita un po’ sacrificata e bisogna combattere la noia, trovando rimedi per passare il tempo. La giornata tipo incomincia alle sei di mattina quando bisogna rilevare la quota d’invaso della diga, le temperature, i dati pluviometrici e la portata di acqua del canale di gronda, operazioni che vanno svolte anche a mezzogiorno e nel tardo pomeriggio. Poi si sale nella diga del Lago di Mezzo, non presidiata ma controllata da noi giornalmente e anche qui, a mezzogiorno, ripetere le stesse letture. A quel punto, si entra nei cunicoli del muro di sbarramento e si rileva la quantità di acqua che drena dal muro. Ci sono poi le verifiche dei sistemi di sicurezza, settimanali e mensili. Dalla diga, che non è altro che il rialzamento delle rive di un lago naturale, vedo buona parte di Valtellina. Il posto è scomodo in quanto può essere raggiunto solo a piedi dopo almeno un’ora e mezza di cammino oppure per mezzo di un ripidissimo piano inclinato. Noi guardiani ovviamente saliamo con quest’ultimo, che è famoso per essere il più ripido degli impianti di Valtellina, raggiungendo anche il 145% di pendenza”.

Carlo trascorre i momenti liberi dal lavoro a Carona, dove è nata la nonna paterna e dove è vissuta fino a 27 anni. Un borgo che, ad inizio Novecento, contava circa 1200 abitanti e che ha subìto un graduale spopolamento dal secondo dopoguerra in avanti: ora, le persone che vi risiedono stabilmente si possono contare sulle dita di una mano, nonostante d’estate i villeggianti, composti perlopiù dagli eredi degli ex residenti, tornano a rianimarne le vie. “Negli anni Quaranta”, racconta Carlo, “la Falck venne a costruire i suoi impianti idroelettrici e la quasi totalità dei paesani fu assorbita come forza lavoro per la costruzione delle dighe di Ganda prima, e di Frera poi. Più di mille persone popolavano il cantiere in Val Belviso! Terminati i lavori, la gente si è trovata davanti a una scelta: emigrare verso la pianura padana continuando a lavorare per le acciaierie e ferriere lombarde Falck oppure rimanere in paese, andando però a perdere il posto di lavoro. La maggior parte scelse quindi di abbandonare il paese per andare incontro a un futuro forse più roseo. Fu così che man mano il centro che un tempo era il più importante centro agrosilvopastorale delle Orobie orientali si spopolò. La coltivazione delle terre venne abbandonata e quello che gli antenati avevano costruito in quasi un millennio di fatiche, dissodando e disboscando i terreni, andò perduto. In pochi anni il bosco si è rimpadronito delle terre e ora rimane ben poco di quello che era un tempo. Il fenomeno per ora si è arrestato grazie a un pastore bergamasco che sale ogni anno e fa pascolare le sue mille pecore: così facendo, i prati si mantengono puliti e il bosco limita la sua avanzata”. Nei due anni in cui è rimasto senza lavoro, Carlo si è interessato alle colture agricole del passato, ne ha approfondito i cicli di lavorazione e ha iniziato a riprodurli con l’aiuto di amici e famigliari: alcuni appezzamenti di segale, patate, grano saraceno e frumento alpino sono tornati a risplendere di colori e a fornire cibo sano e naturale, complice anche l’ottima fertilità del terreno locale. Prosegue: “La motivazione che mi ha spinto a ridare vita a queste attività è l’amore per la mia montagna: ero stufo di sentir dire dalla gente ‘com’era bello un tempo, quanti campi, ora è tutto bosco…’. Io ho voluto passare ai fatti, tornando a coltivare un po’ di quei terreni che da secoli erano vocati a segale e patate. Certo, ho dovuto sbattere la testa contro il fatto che, facendo tutto a mano, risulta davvero difficile coltivare grandi appezzamenti di terreno. Ho un amico che si presta a fresarmi la terra, ma poi svolgo il resto tutto a mano: semino a spaglio, raccolgo a mano mietendo con il scighèz, la falce messoria, batto i cereali a spiga e il grano saraceno con il fièl, il correggiato, faccio la setacciatura grossolana con il rac e, infine, pulisco i chicchi dalla pula con il mulinèl, il ventilabro a manovella. Dietro a ogni singolo strumento c’è una storia. Sono molto affezionato a un scighèz ricevuto in dono dal mio vicino di casa di novantadue anni: me lo ha dato dicendomi che quello era il scighèz di sua madre! Questi falcetti erano tutti in condizioni non molto buone e quindi ho dovuto chiedere ad un altro anziano del paese di insegnarmi a batterli con l’incudine e il martello per rifargli il filo e poi li ho passati con la préda, la pietra cote antesignana dell’acciarino. Di fièl, ne avevo soltanto uno pressoché inutilizzabile che però mi è servito come modello per costruirne dei nuovi; sono andato nel bosco e ho scelto svariate essenze di legno: l’accoppiata vincente è risultata il nocciolo per il manico e il sambuco per il battente in quanto molto duro e resistente. La cosa più difficile è stata costruire il rac, ovvero il grande setaccio in legno che serve per dividere la paglia dai semi. Esso è costituito da una fascera di legno alta circa venti centimetri avente il fondo chiuso da un reticolo in legno a maglia larga. Io avevo la fascera di legno, ma era ormai priva del fondo ho quindi dovuto chiedere ancora una volta agli anziani del paese di insegnarmi a fare le scodesce di nocciolo, a pulirle e a intrecciarle per rifare il fondo. Molti mi hanno detto di applicare una semplice e moderna rete in ferro che avrei fatto prima; io, tradizionalista come sono, non ho dato loro retta! Il ventilabro, mulinèl in dialetto, sono invece andato fino Trentino a recuperarlo!”.
Alla fine della chiacchierata, chiedo a Carlo che futuro vede per il ritorno ad una vita sostenibile in montagna: “Mi piacerebbe risponderti che vedo un futuro roseo, con contrade ancora pulsanti di vita ma, ahimè, temo che fino a quando non cambierà la mentalità della gente si potrà solo peggiorare. Certo qualche mosca bianca c’è, come gli amici di Orto Tellinum che si impegnano tanto in ciò che fanno (si veda Dislivelli, maggio e giugno 2016, n.d.r.), però non vedo nel prossimo futuro un cambiamento sostanziale. Quando ero bambino io le contrade di montagna riprendevano piena vita a giugno e per tutta l’estate era un brulicare di bambini che giocavano a nascondino, fino a fine agosto. Ora invece le nonne preferiscono andare al mare, i genitori anche e i bambini non vengono più portati in montagna se non quei dieci giorni in agosto. Quando ero piccolo io, il mio vicino di casa di mattina faceva il formaggio e ci chiamava per darci un po’ di féta – la cagliata rotta che si usa per fare il formaggio; nei pomeriggi di metà giugno dovevamo nasconderci perché i contadini ci cercavano per andare a spantegare o a montonare il fieno; di sera andavamo a vedere mungere e di nascosto andavamo a saltare nei fienili ricolmi di fieno. Ora i prati di montagna non vengono più falciati, le piccole stalle sono senza mucche e i fienili sono senza fieno perché nessuno più lo raccoglie. Come un cane che si morde la coda: la gente non va più in montagna perché ormai le contrade sono spopolate”.

Per Carlo, il ritorno alla terra è nato per curiosità e voglia di sperimentare, e si è poi trasformato in autoproduzione del cibo. Per ricavare un minimo di reddito bisognerebbe intraprendere un’agricoltura diversa da quella svolta manualmente e su piccole estensioni; sarebbe necessario utilizzare strumenti meccanici, acquistare una mietitrebbia. Ma anche grazie a questa bella testimonianza rimango dell’idea che per far rivivere la montagna non sia per forza necessario ricavarvi del reddito. I nostri stessi antenati coltivarono per secoli ai fini dell’autoproduzione, vendendo il solo surplus dei raccolti e dei prodotti lattiero-caseari o scambiandolo con ciò che non si riusciva a produrre direttamente. Che l’esempio di Carlo sia di monito ai tanti lavoratori a tempo pieno delle vallate e della città, che potrebbero sostituire alle costose sedute in palestra o alle applicazioni degli altrettanto costosi smartphone per calcolare i chilometri percorsi a piedi o di corsa (pagati con parte delle ore impiegate lavorando) del sano lavoro contadino, per prodursi un po’ del proprio cibo, in solitudine o in gruppo, imparando dai più anziani, recuperando le antiche varietà, guadagnando magari non in denaro, ma sicuramente in serenità e salute.
Michela Capra