Henrik Svensen, Storia delle montagne. La vertigine dell’altitudine, Odoya, Città di Castello 2013. pp. 296, 18 euro.
La “Storia delle montagne” di Henrik Svensen sta alle varie storie dell’alpinismo e, più in generale, del rapporto fra l’uomo e le terre alte come gli ultimi episodi di Star Wars stanno ai primi: ne rappresenta l’antefatto, la premessa, il racconto delle origini. Non una storia della montagna (singolare, concettuale), ma una ricerca delle migliori spiegazioni scientifiche sull’origine delle montagne (plurali, concrete). Perché le catene montuose attuali sono dove sono e hanno l’aspetto che conosciamo? Cosa le ha modellate e qual è il loro destino? Henrik Svensen, geologo dell’Università di Oslo, affronta la sfida di provare a spiegarlo a un pubblico di non specialisti del settore, ovvero a tutti noi che viviamo benissimo anche ignorando le “implicazioni della componente di biotite in uno gneiss”. Quella che sembra un’impresa disperata, viene affrontata con successo dall’autore nella seconda parte del libro, dedicata alla ricerca scientifica riguardante le montagne. Il capitolo “Catene montuose” fornisce alcune spiegazioni sui fenomeni all’origine delle montagne, in base alla teoria geologica che a partire dagli anni Settanta si è affermata come la più convincente e completa: la teoria della tettonica a zolle. I capitoli successivi sono poi dedicati rispettivamente all’Himalaya (collisione attiva continente-continente), al Nord America (sistema composto di catene montuose), alle Alpi (collisione che si è fermata), alle Ande (zona di subduzione) e, naturalmente, alle montagne della Norvegia (montagne situate lungo un margine passivo). Svensen ci fa scorgere le montagne nel loro evolversi attraverso il “terzo occhio” (cit.) dello sguardo geologico, svelandoci il Nanga Parbat non solo come un luogo simbolo dell’alpinismo himalayano, ma anche come la montagna del destino di molti geologi, un luogo in cui testare modelli e spiegazioni dello sviluppo della catena montuosa. Ci illumina sulla relazione biunivoca fra il clima e la crescita delle montagne, sul peso di antichi ghiacciai in grado addirittura di abbassare la crosta terrestre, sul futuro cimitero subacqueo delle montagne. Ci fa capire come la geologia, questa strana disciplina che ragiona in termini di milioni di anni e usa il paesaggio attuale come “scena del crimine” di eventi che risalgono a milioni di anni fa sia un sapere conflittuale e in evoluzione: “è inutile girarci intorno: non esiste un’unica conoscenza scientifica delle montagne”. Svensen cerca di attirarsi le simpatie del lettore con ripetuti – e improbabili – tentativi di diventare un “Uomo di Montagna” (qualsiasi cosa questa espressione significhi) e rischia di sterminarlo con l’accumulo di toponimi norvegesi, capace di indurre un effetto di straniamento e aggrovigliamento neuronale paragonabile a quello che si prova leggendo i classici russi. L’ultimo capitolo del libro è dedicato ai freddi rilievi dell’emisfero australe. Ecco così fare capolino dai ghiacci la catena Transantartica attraversata da Amundsen, le vette senza nome della Terra di Maud e le montagne che nessuno ha mai visto: i monti Gamburtsev, la catena montuosa subglaciale del continente antartico scoperta nel 1958 da una spedizione sovietica.
… e la prima parte del libro? I capitoli iniziali sono dedicati a illustrare come si sia sviluppata la comprensione della montagna nel corso della storia. In questa sezione, il lettore con alle spalle un po’ di bibliografia sulla storia delle idee e dei sentimenti che legano la nostra specie alle terre alte si imbatterà in vecchie conoscenze, come Dante, Petrarca, Robert Burnet, Horace Benedicte de Saussure, Jean-Jacques Rousseau o Leslie Stephen e personaggi meno noti, come il filosofo e naturalista danese Henrik Steffens “la foglia di alloro spazzata via dal vento” della Norvegia o l’alpinista britannico Cecil Sligsby, che osò conquistare il tetto della Norvegia prima degli autoctoni. Nel complesso, è forse la seconda parte del libro quella che porta i contributi più originali, anche se spunti interessanti non mancano nemmeno nella prima metà. L’ambizione dell’autore di comporre un libro dai molti fuochi lo ha costretto a una trattazione che potrebbe essere ancora più dettagliata per quanto riguarda la spiegazione scientifica e più ricca per quel che concerne l’aneddotica: si tratta di un interessante tentativo, nel complesso piacevole da leggere, che apre lo spiraglio a innumerevoli approfondimenti monografici. La geologia è una scienza affascinante e utile, maestra di umiltà e relativismo (il tempo degli uomini non è che uno starnuto su scala geologica: non fa male rammentarlo, di tanto in tanto). Senza contare che la geologia ha molto da insegnare agli scalatori, che spesso poco o nulla sanno della roccia cui sono appesi: come dice un amico arrampicatore e geologo, «è ora che gli scalatori smettano di andare con delle sconosciute». Le rocce, appunto.
Irene Borgna